-L’Avana, marzo 2013 –
Castro chi?
Nel senso di Raul o Fidel?
Se lo chiedi in giro ti rispondono che differenza fa? Poi li vedi assieme nelle foto dei momenti di gloria, Raul, il fratello piccolo per sempre piccolo all’ombra di Fidel, giovane, con appena un filo di baffi, guarda il fratellone a sinistra, a destra il Che sta ridendo mentre lui è sornione, come di chi essendo di famiglia è avvezzo alla lingua fraterna. Fidel, lo scaltro Fidel comunista al punto giusto, Fidel l’unico che poteva governare la rivoluzione. E come la governò? Semplicemente senza mai definire un programma, e soprattutto senza mai definire una struttura organizzativa che tenesse insieme l’esercito della Sierra col movimento del Llano, quello della pianura e delle città, tanto eterogeneo quanto velleitario. Quando nel dicembre del 1958 si sta per entrare a L’Avana, Fidel non ci manda Ernesto Guevara che era lì a due passi, troppo forte, troppo pericoloso, ci manda Camilo, che sta più lontano. Dice che lo fa perché vuole prendere tempo, perché troppi generali e colonnelli di Batista sono smaniosi di passare coi barbudos, ma lo fa anche perché è convinto che Camilo non utilizzerà la presa de L’Avana per prestigio personale, per rivaleggiare con lui, non ha tempo, è troppo preso da donne e rum. A gennaio 1959, scappato Batista, Fidel ufficializza il suo ruolo di leader maximo.
Chi poteva contrastarlo, il Che? Grande personalità, colto, intelligente, capace, ma argentino e poi troppo comunista per tenere insieme le varie anime della rivoluzione, soprattutto quelle barghesi e nazionaliste. E non dimentichiamo che il partito comunista aveva collaborato con Batista, che gli americani, in un primo momento, avevano perfino finanziato la guerriglia per contrastare l’eventuale influenza sovietica.
Camilo è molto amato dal popolo ma è troppo preso a difendere la parte nazionalista indipendentista per proporsi come punto di riferimento di aggregazione. E poi non ha mai pensato di diventare leader maximo.
Dunque la rivoluzione cubana, fin dallo sbarco del Granma, ha il destino segnato da quel Fidel fede incrollabile, l’unico ad avere certezze, ambizione e determinazione, doti che gli faranno dire dopo il disastro dello sbarco: “Siamo in sette. Non ci hanno uccisi. Dunque la vittoria è nostra”. In realtà poi si ritroveranno in dodici, forse addirittura il tredici, ma 50.000 uomini dell’esercito di Batista non riusciranno più a prenderli.
Andando su e giù per l’isola Fidel si vede poco, qualche frase nei campi, o ai lati dei monumenti agli eroi morti. Raul neanche queste. Nelle scuole, negli ospedali, nelle piazze, in tutti i luoghi pubblici è poco rappresentato. Si trova tanto José Martì, in bronzo, in marmo, in foto, in dipinti, e, soprattutto, riprodotto in un busto di plastica bianca posto ovunque, poi trovi il Che, infine Camilo, ma dei Castro molto poco.
Noi siamo abituati ad avere la faccia del presidente della repubblica negli edifici pubblici, per esempio nelle scuole dietro la scrivania del dirigente scolastico, a Cuba non deve essere un obbligo, infatti dietro la scrivania della direttrice della “Escuela Especial Solidaridad con Panamà” non c’è niente, su una parete c’è invece il Che, non l’icona classica, ma un vero quadro realizzato a carboncino. Più tardi scopro, su un tavolinetto tra due poltrone, lì dove in genere si mettono le foto dei parenti stretti o di quelli morti, racchiusi in una piccola cornice di metallo, ci sono Fidel e Raul. Non è una cosa da regime stalinista quel rappresentare il potere reale in una dimensione privata.
In tutte le aule, a parte una, ci sono immagini del Che e di Camilo. Certamente il Partito Comunista Cubano ha bisogno di questi eroi e se ne fa scudo, ma Camilo e il Che si trovano anche nelle case private, dunque sono amati e rispettati dal popolo. O forse, ad essere maliziosi, il popolo sceglie gli eroi morti anziché quelli che governano interrottamente dalla fine della rivoluzione. Come dire siamo con loro ma non con voi.
E parlando con le persone nei mercati, con quelli che affittano camere, coi tassisti e quelli a cui abbiamo dato passaggi nei viaggi per l’isola, emerge che quasi tutti desiderano un maggior benessere e credono che questo possa venire solo con la caduta del castrismo. Il PCC nel suo ultimo congresso ha confermato Raul fino al 2018, da parte sua Raul ha già dichiarato che nel 2018 si ritirerà dalla scena pubblica.
Cosa accadrà? Il PCC si aspetta nei prossimi dieci anni che il prodotto interno del lavoro indipendente, così viene definita l’iniziativa privata, superi quello statale e raggiunga il 60 % dell’intero PIL, come dire che il socialismo statale corre ai ripari, tenta la carta di una forma di economia mista, mercato a controllo statale.
Ma che sbocchi darete all’accumulazione di capitale da parte del lavoro indipendente, chiedo a Roberto Rodriquez, responsabile dell’amicizia tra i popoli, area Europa.
“Abbiamo messo dei paletti molto stretti perché non ci siano accumulazioni di tipo capitalistico; l’iniziativa indipendente non può assumere più di nove persone. I ricavi di queste iniziative sono fortemente tassati, un affittacamere paga allo stato, per ogni camera 150 Pcuc al mese” (a Cuba circolano due monete, una nazionale, i pesos, e una convertibile con le divise estere i pesos-cuc. Un peso-cuc vale un dollaro statunitense. Se vuoi i pesos non convertibili, devi prima cambiare la divisa estera in pesos-cuc, e poi questi in pesos cubani. Con un peso-cuc ti danno 25 pesos cubani). Insomma se riesci ad affittare per tutti i 30 giorni, allo stato toccherebbe una tassa complessiva del 25%, ma se non trovi clienti, neanche per un giorno, i 150 Pcuc devi versarli lo stesso. In Italia una tassazione del 25% sarebbe una manna dal cielo.
La tassazione è un aspetto recente e ancora primordiale, non è del tipo che si usa negli stati ad economia di mercato, per capirci non esistono IVA e IRPEF e neppure un’IRAP. Non si rilasciano scontrini a Cuba, né si pagano tasse sui salari. Per ora le iniziative private pagano un tot fisso al mese, è più un canone di concessione statale che una tassa. Ma non tutte le attività private pagano tasse, per esempio le Case Particular pagano per l’affitto delle camere ma non per il cibo, e per il cibo il guadagno può essere anche superiore allo stesso affitto, anche perché gli affittacamere ai mercati comprano gli alimenti in pesos cubani e li vendono ai turisti in pesos-cuc. E sono tanti soldi se si pensa che lo stipendio di un operaio è di 10 Pcuc al mese, e quello di un medico di 20 Pcuc al mese. Come dire che una giornata di affitto vale il doppio di una paga mensile di un operaio. E per far capire quanto sia grande la differenza tra il guadagno in attività private da quello stipendiale, a Moron il nostro affittacamere era un medico odontoiatra. Lo vedete un dentista italiano che per fare soldi affitta le camere della sua casa?
Le case possono essere di proprietà privata, si possono vendere e acquistare, infatti per strada ci sono tanti cartelli vendesi. Per comprare devi essere cittadino cubano.
Questo è un processo di accumulazione, come lo gestirete quando questa piccola borghesia deterrà il 60% del PIL? Seguirete le via russa o quella cinese?
“Nessuna delle due, intanto perché lì c’è ormai il capitalismo e poi perché Cuba da sempre segue la sua via al socialismo, e il socialismo non sarà abbandonato. E’ poi successa una cosa molto interessante, tutte le categorie di lavoro indipendente hanno subito creato i loro sindacati”, risponde Roberto.
Insomma i padroncini hanno creato associazioni per la difesa dei propri interessi, cosa accadrà quando queste categorie si proporranno come forza che vuole contare, forza che invade la scena politica, forza che chiederà potere? E che forma di potere può essere più congeniale a questa nuova borghesia?
“E’ un processo in atto, ancora non sappiamo cosa e come evolverà, risponde Roberto Rodriguez, quello che sappiamo è che mai abbandoneremo il socialismo. D’altra parte lo sviluppo dell’iniziativa indipendente nel campo dei servizi è notevole mentre rimane irrilevante nel campo del settore primario e del settore secondario. Stiamo cercando di incentivare la nascita di cooperative nel settore primario e secondario ma per ora con modesti risultati”.
Ecco questa indeterminatezza rimane una caratteristica del castrismo, qui si è lasciato che il potere, la società, l’economia, fossero una massa informe e fluttuante, una massa che necessita di un punto di riferimento, Fidel, proprio come durante la rivoluzione. Il processo rivoluzionario teoricamente abbraccia il leninismo ma poi se ne tiene ben lontano, d’altra parte Fidel non era comunista, Raul lo era ma non contava, il Che lo era e si dannava a chiedere struttura, strategia, rigore. Sono sue le parole di condanna più pesanti ai movimenti del llano dopo il fallimento dello sciopero generale del 9 aprile del 1958 e la morte di più di cento militanti. La direzione del Movimento 26 Luglio del llano fu infatti sciolta e da allora la Sierra, cioè la parte militarizzata del movimento, prese il sopravvento e governò la rivoluzione.
E ora?
Ora smottamenti in corso.
Vi ricordate il film Fragola e Cioccolata? Si narrava delle discriminazioni e delle violenze subite dagli omosessuali cubani. Bene ora a Cuba i matrimoni gay sono riconosciuti e se si vuole cambiare sesso si può farlo gratuitamente nel sistema sanitario statale. Per strada una notte nel centro storico di Cameguey ho incontrato una piazza piena di omosessuali che giocavano alla cavallina, inventavano di volta il volta come toccarsi al momento del salto. Le loro risa risuonavano in tutta la piazza. C’era gioia di vivere e libertà di mostrarsi, anzi sfrontatezza e provocazione, tipica degli omosessuali dell’orgoglio gay.
Dall’etica del lavoro disgiunto dal valore economico di Ernesto Guevara siamo ora al mini capitalismo privato che dovrà produrre più della metà del PIL nazionale. Le persone comprano e vendono case, si organizzano in associazioni di categoria, non si tratta di sindacati di lavoratori ma di padroncini che si associano per difendere il loro profitto. Quando questi smottamenti diventeranno frana o passaggio ad un’altra mappa non si sa, molti scommettono entro il 2018, come dire che il comunista Raul chiuderà il comunismo cubano. Guai però a farlo sapere in giro.
E comunque durante questo viaggio, una domanda ci ha intrigato come un mistero a cui davamo tante risposte e nessuna soddisfacente: premesso che incontriamo tanti cubani intenti a scolarsi birra o rum, tenuto conto che un operaio-operaio, cioè uno che non ha attività indipendente, o un impiegato statale, ha un salario di 10 Pcuc al mese, e che una birra Cristal, o una Bucanero, costa 1Pcuc, come fa un cubano a ubriacarsi? E se una bottiglia di Havana club, o di Santiago costa dai 3,50 ai 4 Pcuc, come fa un cubano a scolarsene una al giorno? E’ un altro mistero del comunismo cubano, un comunismo a rete con maglie flessibili, le maglie si allargano e si stringono.
Il rigore intransigente del Che
La famiglia ufficiale di Ernesto Guevara è composta dalla moglie Aleida March e da quattro figli: Aleida, stesso nome della madre, Celia, Camilo ed Ernesto. Il Che era stato già sposato con Hilda Gadea, da questo matrimonio nacque Hilda Beatriz. Hilda e Hilda Beatriz sono morte, la prima nel 1975, la seconda nel 1995, rimane la famiglia cubana, famiglia che gode di uno stato sociale diverso dai normali cittadini, per esempio davanti alla loro dimora c’è sempre un picchetto di guardia; d’altra parte i familiari sono sempre pronti a sostenere, fosse anche con la sola loro presenza, le iniziative del potere castrista. E poi Aleida moglie custodisce i tre sacchi di documenti del Che consegnate da Carlos Franqui nel 1965, anno dell’inabissamento del Comandante, inabissamento dal quale emergerà solo come cadavere esposto nella scuola di La Higuera, villaggio della foresta boliviana. I materiali in possesso della famiglia, secondo lo stesso Franqui, che lasciò Cuba nel 1968 dopo aver firmato un documento contro l’invasione della Cecoslovacchia, contengono parecchi motivi di apprensione per il potere castrista. [Franqui, che fu direttore di Radio Rebelde e successivamente del quotidiano Revolution, ha al suo attivo diversi scritti critici sulla rivoluzione cubana]. La famiglia da anni è impegnata nella costituzione di una Fondazione Che, ma il progetto non si concretizza mai. Per quale ragione? Volevo chiederlo a Aleida, madre e figlia, ma per mia negligenza ho saltato un secondo incontro che si sarebbe tenuto nella residenza dei Guevara. Volevo anche chiedere quali iniziative intendevano prendere per il cinquantesimo della morte del Che. Il mio amico Alberto, che l’appuntamento non lo ha mancato, glielo ha chiesto e Aleida ha risposto che loro qualcosa faranno. Una risposta molto generica e poco impegnativa. Sul Che si è scritto tanto, ma troppo spesso per tirarlo dalla propria parte, le varie pubblicazioni spesso contengono contraddizioni ed interpretazioni non suffragate dai fatti. L’unico lavoro serio sulla rivoluzione è quello di Carlos Franqui, il suo “Diario della Rivoluzione Cubana” (Alfani Editore 1977) non è altro che un insieme cronologico di documenti ufficiali firmati dai vari comandanti; l’autore si è limitato a compendiare il tutto con note esplicative. Eppure ci sono i tre sacchi da cui sono usciti poche cose e sempre sotto il rigido controllo di Aleida moglie. C’è un grande lavoro storiografico che aspetta di essere realizzato ma non ci sarà, almeno fino a quando Aleida moglie sarà viva e il regime cubano al potere. Ho chiesto al nostro accompagnatore, Roberto Rodriguez, se stavano organizzando qualcosa per il cinquantesimo della morte di Guevara, mi ha risposto che i cubani non amano la morte di una persona ma la nascita, e poi la morte, l’assassinio di Guevara, è ancora un dolore per la famiglia. Forse ci sarà una parata militare. Dunque Cuba non realizzerà niente e la famiglia, che d’altra parte ha lasciato al mondo intero l’uso libero del Che, allo stato attuale non è in grado di organizzare gran che. E’ vero che questi uomini della Sierra, anche Camilo era così, a quei tempi avevano cementato un patto di sangue con la rivoluzione, un patto che li portava a non rendere pubblici gli scontri durissimi che c’erano tra le varie anime, è vero che questi uomini avevano necessità di essere coesi davanti al nemico interno ed esterno, ma ora tutto questo ha ancora senso? Non c’è necessità di ripartire dalla dialettica di quegli anni per riprendere il processo rivoluzionario e condurlo per nuove strade?
Ripartire dallo scontro sul destino della rivoluzione, ovvero se l’obiettivo era la liberazione dal giogo statunitense, o quello della conquista della democrazia abbattendo Batista, o una lotta continua fino alla nascita dell’uomo nuovo.
Fidel andò sulla Sierra per battere il dittatore e liberare Cuba dal giogo del capitale straniero, Raul, il fratello, per realizzare uno stato socialista di tipo sovietico, Camilo era per una rivoluzione democratica, il Che per l’uomo nuovo e un comunismo non burocratico statalista.
Dopo la presa de L’Avana Fidel, che ha sempre agito con grande scaltrezza tattica, vira, anche per la sordità americana, verso lo stato a modello sovietico mentre Guevara ne prende le distanze, si definirà infatti un marxista autonomo, non ascrivibile ad alcuna corrente. Fidel lo mandò in giro per il mondo come la voce della rivoluzione e lui capì come stavano le cose: non c’è alcuna differenza tra lo sfruttamento capitalista e lo sfruttamento socialista. “Bisogna cambiare il modo di produrre, non possiamo semplicemente sostituire a tanti padroni uno stato padrone”. Lottò come poté quando era Ministro dell’Industria, ma creare un modello alternativo al capitalismo non era cosa facile e quando si rese conto che il comunismo burocratico sovietico era diventato anche il modello cubano allora per lui divenne indispensabile cercare altre strade, che non furono semplicemente politiche ma esistenziali. E poi questa pretesa cubana di cercare un’altra strada non piaceva ai sovietici, ma neanche ai cinesi, insomma il Che non aveva sponde, Fidel la trovò in Kruscev prima e in Breznev dopo, ma anche lui era controllato e spiato perché ritenuto un non
affidabile. Il Che rimase in silenzio per quasi un anno, probabilmente un anno di scontri con Fidel, probabilmente un anno di contrattazione per gestire la sua fuoriuscita dalla leadership e dal governo cubano, alla fine Fidel acconsentì, probabilmente proprio dietro la stesura della famosa lettera che metteva al riparo il regime da una sorta di sconfessione guevarista. D’altra parte il Che sicuramente chiese la sicurezza per la sua famiglia, chiese che fosse lo stesso Fidel a curarsene. E Fidel lo fece, Aleida figlia scrive e dice ogni volta che può che Fidel è stato per lei un secondo padre, anzi che del padre ha pochi ricordi ma di Fidel tanti.
La rivoluzione continua del Che era troppo troskista per non essere amata dai movimenti degli anni 60, i barbudos apparivano come un gruppo di rivoluzionari più vicini a Rimbaud che a Lenin, dei marxisti autodidatti alla ricerca della loro strada. Il Che fu certamente il più radicale ed intransigente, un uomo che nei tour all’estero rimproverava i collaboratori se compravano scarpe che un operaio non poteva permettersi, un politico che teorizzò la rivoluzione del sacrificio, “solo con un lungo periodo di sacrifici di tutto il popolo potremo porre le basi del nuovo mondo, altrimenti al meglio copieremo quello che già c’è”. Guevara ministro si rese conto di non riuscire a cambiare quel modo di produrre, che il suo modello non incrementava la produzione ma che addirittura la riduceva. Lui lavorava venti ore al giorno, fu il periodo delle notti bianche al Ministero dell’Industria, non era mai soddisfatto, si lamentava dei collaboratori, era irascibile, a volte violento con loro, li rimproverava di lavorare poco e male, accusava gli operai di non essere all’altezza e ai quadri del partito di non assumere nella pratica quotidiana i compiti rivoluzionari. Si era messo in testa di svincolare l’impegno nel lavoro dal guadagno materiale, “è questa la cesura che rompe il modello di produzione capitalistico”. Ottenne solo frustrazioni per se e per i suoi collaboratori, si convinse di non essere all’altezza del governare e che lui sapeva far bene solo la guerriglia. O forse era diventato un disadattato alla vita normale, forse era rimasto prigioniero del mondo della Sierra. Lo pensò nel 1962, durante uno dei suoi numerosi viaggi per rappresentare il governo rivoluzionario nei paesi del Nord Africa, rimase con le sue domande per quello che per lui era un lungo tempo, un anno, poi decise di andare incontro al suo destino. Cosa realmente accadde in quei mesi di silenzio è ancora sconosciuto o meglio c’è la versione di Fidel da una parte e dei fuoriusciti dall’altra, ma non c’è una ricostruzione storica realizzata da una terza parte, soprattutto non c’è la pubblicazione dei documenti integrali del Che. L’anno del silenzio si concluse con la lettera testamento affidata a Fidel, con una partenza clandestina, con la concessione di un gruppo di rivoluzionari che potevano seguirlo nell’impresa e con l’assunzione da parte di Cuba di un ruolo di supporto ai movimenti rivoluzionari clandestini africani, latino americani e asiatici e di lotta contro l’imperialismo americano. Fidel fece capire all’ingestibile amico che la sua sarebbe stata una strada senza ritorno, che Cuba con tutti i problemi che aveva a livello mondiale, e con l’esercito degli Stati Uniti in casa, non si poteva permettere di essere scoperta come uno stato che organizzava le rivoluzioni nel mondo, fece capire che il popolo aveva diritto a riorganizzare la propria vita e non ad essere coinvolto in velleitarie rivoluzioni permanenti. Ma queste sono poco più di supposizioni, la verità rimane in quei sacchi gelosamente custoditi da Aleida, e la famiglia sembra finora orientata più a difendere lo stato cubano che non la memoria storica del Che. Aleida moglie ha permesso a Paco Ignacio Taibo II di pubblicare solo una parte dei diari congolesi, cosa c’è in quei vuoti temporali lasciati dalla pubblicazione curata da Taibo II? Per esempio, possibile che quando il fido Benigno, al secolo Daniel Alarcòn, comunica al Che le parole inequivocabili di Fidel sulla impossibilità per il Che di tornare a Cuba, questi non abbia scritto nulla? Si sa, dai racconti dei compagni d’armi, che egli non era arrabbiato ma affranto, addolorato, spento, come si aspettasse una comprensione, non politica, che non poteva esserci, ma umana, come se si aspettasse in cuor suo che Fidel non anteponesse la ragion di stato, del suo stato, alla ragione del suo amico sconfitto in Angola. Il Che era un grafomane, non è possibile che non avesse scritto una riga su una decisione che tanto lo colpiva nella sua intimità.
Dal punto di vista politico è evidente che il Che si sbagliava, non come analisi dell’imperialismo americano, che non è questo il punto, ma sulla natura delle rivoluzioni, queste sono come le opere d’arte, ognuna è unica e irripetibile; l’idea tutta positivista di aver trovato il modello generalizzabile fu l’errore di fondo di tutte le rivoluzioni del XX secolo, lo fu per Lenin, per Trotsky, lo fu anche per Guevara. Certamente agiva in lui un senso di non appartenenza, non era cubano ma neanche si sentiva tanto argentino, era da anni cittadino del mondo, dov’era la sua patria? In tutti i luoghi dove si combatte per la dignità della persona, contro le ingiustizie e le sopraffazioni di ogni sorta, in primo luogo quelle degli Stati Uniti. La morte non gli faceva paura, la sua asma lo teneva continuamente a contatto con l’asfissia e il non poter respirare è sensazione molto vicina alla morte, il Che con la morte ci conviveva da sempre.
Per il suo mito bastano due foto in bianco e nero, il Che sguardo intenso perso nel vuoto, capelli lunghi e scompigliati, basco con stella, e il Che morto, deposto su un tavolo come il Cristo del Mantegna.
Korda, al secolo Alberto Diaz Gutierrez, è l’autore della prima, la prese sul palco della manifestazione contro gli americani del 4 marzo 1960. Racconterà, a Giangiacomo Feltrinelli, che sul palco oltre ai leader c’erano Sartre e la Beauvoir, che il Che era stato alla testa del corteo e aveva accompagnato al cimitero di Còlon le oltre cento vittime dello scoppio, nel porto di L’Avana, della nave belga La Coubre; ma a un certo punto il Che era sparito per riapparire sul palco per pochi attimi. Era teso, dirà sempre Korda, faccia preoccupata, sguardo assente, c’era sgomento in lui, gli americani avevano deciso di contrattaccare e Cuba si era scoperta mortale. Korda scatta rapidamente una foto, poi ne fa un’altra, la prima sarà quella buona, anche se è un po’ sfocata.
Il Che, ha i capelli lunghi, in testa il basco verde oliva con la stella rossa, indossa un giubbotto di cuoio verde con il collo di lana blu, è un regalo di un amico messicano. Come sarebbe stata questa foto se fosse tata scattata a colori? Paradossalmente quello sguardo che esprime una rabbia fredda diventerà l’icona mondiale dei movimenti del 68 e da allora di tutti i movimenti di ribellione. L’altra foto, quella che lo ritrae morto, è dei militari boliviani che lo hanno ferito, catturato e il giorno dopo giustiziato. La sua ultima notte di vita deve essere stata terribile, era ferito in più parti del corpo dalla sventagliata del mitra, era steso sulla nuda terra, sul corpo una coperta, le ferite continuarono a sanguinare fino al suo assassinio, non le tamponarono, né gli iniettarono morfina, gli stessi militari racconteranno che egli urlò per tutta la notte. I suoi resti saranno trovati e identificati solo nel 1997. Ernesto Guevara era stato sepolto ai bordi del piccolo aeroporto di Vallegrande, un paese andino di 7000 abitanti.
La gestione della morte fisica di un mito si sa è cosa difficile, da una parte bisogna dimostrare inconfutabilmente che lo si è ucciso, dall’altra evitare le conseguenze del gesto, per esempio la vendetta, o cosa più grave la nascita di un luogo di venerazione. Cosicché il cadavere del Che subì una sepoltura segreta ai margini di un aeroporto e il taglio delle mani per un’identificazione certa; le mani furono conservate in formaldeide e poi esaminate da esperti argentini per confrontare le impronte digitali del morto con quelle in loro possesso impresse all’atto del rilascio della carta di identità.
Ciò non impedì che La Higuera, il luogo dove fu ferito e poi ucciso, e Vallegrande diventassero sedi di pellegrinaggio e luoghi di venerazione, non solo per i rivoluzionari di tutto il mondo ma anche per la popolazione locale. Molti indios per esempio credono che la presenza del Che compia miracoli e raccontano tante storie. Fu cosa tanto seria da indurre il consiglio comunale di Vallegrande ad approvare una delibera che chiedeva di non portare via i resti del Che in nome del rispetto della regola dei guerriglieri che vuole che siano sepolti nel luogo dove si cade in battaglia.
I cubani, ottenute le spoglie, alzarono un mausoleo a Santa Clara, lì dove il Che ottenne la più importante vittoria personale e della rivoluzione, la vittoria che aprì la strada per L’Avana. Il mausoleo presenta due facce, una retorica, e allo tesso tempo pedagogica, e un’altra fortemente simbolica e concettualmente comunista. La prima si esprime attraverso la monumentalità propria dei poteri e attraverso un annesso museo che raccoglie documenti e cimeli della vita del rivoluzionario; la seconda si esprime con la forma del luogo di sepoltura: una parete con 31 tondi, tutti uguali, al centro quello del Che, intorno quelli di 30 compagni caduti. Nei tondi solo i nomi di battaglia, nessun altro elemento identitario, non cognomi, non date di nascita o di morte, non paese di provenienza. L’ambiente che li ospita ha forma che somiglia a una grotta di montagna; buio, qualche pianta, un garofano rosso per ogni tomba. Le altre tre pareti e il soffitto sono costituiti da migliaia di piccoli parallelepipedi di pietra e di legno, pietra su pietra, legno su legno, uno sull’altro, l’uno a fianco all’altro, come fossero stati portati lì da un intero popolo che sfilando li ha depositati in modo non sempre preciso come vuole il fare edile. L’ambiente che ospita i guerriglieri è la prima opera che mi fa pensare che sia comunista.
“Ho usato elementi geometrici molto puri – rettangoli e quadrati – che rappresentano la personalità del Che, che era molto stabile e molto forte”. Così presentava l’opera José Delarra, lo scultore cubano che la realizzò.
ll sorriso di Dio
Quando parlava Camilo il popolo ascoltava incantato, poteva parlare per sei ore, il popolo restava lì ad ascoltarlo, e gridava Camilo! Camilo! Camilo è stato assassinato da Castro.
Fidel o Raul?
Che differenza fa? Raul era geloso, Fidel lo temeva, Camilo aveva idee diverse sul destino della revolution, lui non era comunista.
Allora perché accettò di andare a Camaguey a sedare la rivolta capeggiata da Huber Matos che era per una Cuba democratica e anticomunista?
Camilo era troppo popolare per essere arrestato come uno dei tanti, cosa normale in quel 1959, arrestare i “bandidos” pagati dagli americani, dai latifondisti, dagli amici di Batista. Il popolo lo voleva presidente di Cuba. Fidel lo spedì a Cameguey per non farlo ritornare più, un incidente aereo, perfetto.
Ma dei tre comandanti della rivoluzione, in quel 1959, Camilo era il più attivo a combattere i focolai controrivoluzionari.
I suoi genitori erano anarchici fuggiti dalla Spagna. Camilo era un vero rebelde educato alla libertà, non voleva che anche questa volta la rivoluzione fallisse. Capì che Fidel era l’unico che potesse tenere assieme tutte quelle diversità, voleva che al più presto si arrivasse alla pacificazione dell’Isola per poter realizzare il programma rivoluzionario.
….. Camilo? Camilo fu assassinato da Fidel. Ci fu un’animata discussione, una delle tante, Fidel perse il controllo e gli sparò, poi mise in scena la caduta dell’areo. E dov’è caduto questo aereo? Non si sa. Non è stato trovato nulla, ne’ i corpi, né l’aereo, neanche un pezzettino. Dicono che lì l’oceano sia molto profondo. Cercarono, tutti andarono a cercare, anche il popolo, non fu trovata nessuna traccia. Non è possibile che un aereo non lasci traccia.
….. Camilo? Fu ucciso da Raul, fu un errore, partì accidentalmente un colpo dalla sua pistola. I Castro misero in scena la storia dell’areo perché nessuno avrebbe creduto all’incidente. Il momento era troppo delicato e poteva essere utilizzato dai contras.
…. Camilo? Da umile popolano a Comandante, uno dei tre comandanti della rivoluzione. E sarebbe diventato presidente di Cuba, il popolo lo amava, se ci fossero state regolari elezioni lui le avrebbe vinte di gran lunga. E questo non stava bene a Castro. Infatti le elezioni non si tennero mai.
….. Camilo? Furono gli americani a buttar giù il suo aereo. Un caccia atterrò non lontano dal luogo dell’incidente. Fu uno dei tanti sabotaggi alla rivoluzione, sabotaggi che continuarono fino allo sbarco alla Baia Giron, Baia dei Porci, e anche oltre con i quaranta e passa tentativi di far fuori Fidel.
…. Camilo? Grande combattente, grande oratore, sapeva come prendere il popolo, e anche grande stratega, fu sua la strategia rivoluzionaria che portò alla vittoria, ma non era un valido politico e poi sempre a bere, sempre a donne, uno statista non può perdere tanto tempo appresso ai piaceri dell’alcol e del sesso. Era troppo sregolato, un anarchico. Un anarchico a capo di uno stato? E’ una contraddizione in termini. Qualcuno si doveva prendere la responsabilità di governare il nuovo stato, e Camilo non lo avrebbe mai fatto. Un mito? Certo che lo è, l’eroe è sempre un morto, mai uno che ne esce vivo. Un morto non commette errori e rimarrà per sempre un eroe. Non ci vedo nulla di strano. E poi, la famiglia di Camilo è stata sempre con Castro. Se fosse stato ucciso vi pare che restava a Cuba?
Huber Matos, il comandante arrestato da Camilo fu processato e si fece anche la galera. Oggi è in Florida. E da lì dice che Camilo è stato ucciso, anzi si dice addolorato che lui sia stato causa della sua morte.
A Matanzas, in uno spazio espositivo di un editore molto originale c’è un’installazione bellissima. Da una foto di Camilo sorridente, e il sorriso di Camilo è il più bello e sincero mai visto su questa terra, scende la sua barba fluente, fa una curva per salire e diventare la barba di Gesù.
Ecco, secondo me questa è la rappresentazione che più di ogni altra esprime il sentimento del popolo cubano verso Camilo.
E’ per quel sorriso pieno di vita, sfrontato, felice, che il popolo lo ama e ogni 28 ottobre si reca al mare, sui laghi e sui fiumi per porgere fiori al sogno che rappresentò.
“Questo ragazzo bianco ha la risata di Dio”, così diceva di Camilo Cienfuegos il popolo di L’Avana. E Camilo in quel 1959 rideva alla vita con i suoi 27 anni e la Sierra alle spalle. Di giorno rivoluzionario per passione, di notte amante di tutti i piaceri. Instancabile con l’ansia di non perdersi nulla di quei giorni frenetici, raccoglieva ogni sorta di materiale che potesse servire a ricostruire la storia della rivoluzione, condivideva con Carlos Franqui questa preoccupazione, tant’è vero che lasciò un biglietto autografo in cui scrisse che affidava a lui tutti i documenti che aveva conservato. “Perché dopo, quando si prende il potere, si cambia, si raccontano cose non proprio vere”.
“Fidel dobbiamo scrivere la storia della Sierra”.” Abbiamo cose molto più importanti da fare, rispondeva Fidel”. “Va bene così Camilo?” chiedeva Fidel tra il serio e il faceto, ché Camilo faceva le pulci a tutte le decisioni, ma poi era sempre il primo a sfidare il pericolo. Spesso il Che e lo stesso Fidel gli rimprovereranno proprio quel lanciarsi in imprese impossibili, quel cercare il pericolo e giocarci, fosse il funzionamento di una bomba, o l’attraversare di notte le file nemiche. Forse fu questa sua sfida al tempo a ucciderlo il 28 ottobre del 1959, la fretta di tornare all’Avana dove si stavano prendendo decisioni importanti e lui voleva esserci; la sua voracità insaziabile lo portava a divorare il tempo come il cibo, come quella volta sulla Sierra quando dopo giorni che non mangiavano si fece un’intera capra e il Che dovette intervenire per salvarlo dall’indigestione. Sì forse quella notte la tempesta ci fu davvero e lui volle sfidarla partendo col Cessna da Cameguey, forse, come scrive Franqui, “quando si accorse che l’aereo precipitava si mise alla guida per condurlo negli abissi”. Ma tanti dicono che non ci fu nessuna tempesta quella notte, che l’aereo era stato sabotato dai servizi segreti affidati ad Osvaldo Sànchez, ex dirigente della gioventù comunista, che Castro avesse deciso di affidarsi ai comunisti e abbandonare la parte rivoluzionaria democratica dell’M26, il movimento 26 luglio, cosa che effettivamente accadde dopo la morte di Camilo. Con Camilo vivo non sarebbe stato possibile, scrive Carlos Franqui in “Camilo Cienfuegos”, pubblicato in Italia nel 2011 da Massari Editore, troppo popolare. Il 26 ottobre, due giorni prima, era salito sul palco davanti al Palazzo Presidenziale de L’Avana, alla sua apparizione la folla non la smetteva di applaudire e invocare il suo nome. Fidel era torvo, per sdrammatizzare Camilo disse “non è per il comandante Camilo Cienfuegos: è un’ovazione alla rivoluzione”. Fidel fino allora non era comunista, o perlomeno si era posto come ago della bilancia, lo era il fratello Raul, lo era il Che, perfino Osmany, fratello di Camilo, ma lui era per una terza via, democratica e popolare. La Sierra cambiò Fidel, si dice che subisse troppo l’influenza del Che, è vero Fidel cambiò, ma non per ideologia, cambiò perché Fidel era uomo dell’hic et nunc, pratico, gestionale del possibile, dunque incline a tutti i compromessi pur di vincere la sua rivoluzione. Oltre a Franqui, a Matos, anche il compagno più fidato del Che, Benigno, al secolo Daniel Alarcòn, scrisse che l’incidente fu organizzato da Fidel e Raul perché il nome di Camilo risuonava più forte di tutti. Anche Juan Vivés la pensava allo stesso modo, “l’esercito fu affidato a Raul ma voleva Camilo ed era pronto a insorgere, ecco allora il furbo Fidel mandare Camilo ad arrestare il generale Hober Matos dimessosi a Cameguey. Camilo, andato a Cameguey, condusse un’indagine per proprio conto, telefonò a Fidel per dire che non c’era stato alcuna sommossa, né tradimento. Forse il gesto di Fidel mirava solo a rendere impopolare Camilo tra i democratici, di togliergli terreno sotto ai piedi, fatto è che a Cameguey quella notte furono messi fuori gioco due degli uomini più pericolosi dell’ala democratica.
*[estratto da un reportage del 2013 pubblicato sulla rivista “Il Piede e l’Orma – Pellegrini editore”]