C’è una congruenza, tanto circostanziata da procurarmi sobbalzi di inquietudine, che tiene insieme in un processo in atto la conquista della centralità dell’Io, lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione con protesi onnipresenti in ogni persona e il controllo digitale non soffocante, anzi basato sulla libera offerta di informazioni di sé al sistema di controllo.
La rete, dagli algoritmi dei social fino al touch screen dello smartphone, è un insieme di specchi dove ogni connesso si guarda, la rete è il regno del solipsismo, predisposto e veicolato attraverso l’accoppiata device-algoritmo. Questa accoppiata in continua mutazione, mutazione che viene proposta come offerta di nuove esaltanti possibilità, ci lascia soli in una melanconica compagnia di “amici virtuali”. Ognuno rimane prigioniero del proprio specchio, quindi non può vedere l’altro da sé, la rete è un insieme di miliardi di specchi, ognuno dei quali ha un cordone ombelicale che lo collega sì a tutti gli altri, ma all’interno dei grandi uteri-server che tutto avvolgono (Google, Facebook, Twitter, …). Ma a differenza dei cordoni ombelicali materni quelli digitali non servono ad alimentare il feto, cioè noi connessi, neppure a scambiare alimenti tra i connessi, che in realtà specchiandosi non vedono gli altri. I cordoni servono a succhiare e immagazzinare nei grandi uteri-server globali le informazioni che gli stessi connessi spontaneamente.
I nostri comportamenti, sentimenti ed emozioni comprese, e le nostre creazioni, in un percorso inverso da quello materno, diventano “dati” che poi gli uteri-server passano agli apparati digerenti che scindono i componenti nutritivi rendendoli adatti ad alimentare la Grande Macchina. I componenti nutritivi, come merci, vengono messi sul mercato della politica, della produzione di nuovi device, della elaborazione di algoritmi, della produzione di automazioni e robotica, della costruzione di sistemi di servizi globalizzati, dell’estrazione dei desideri globali, della riproduzione di immaginari, cinema, televisione, internet, editoria cartacea (l’industria dell’immaginario utilizza emozioni, sentimenti e comportamenti estratti dai big data per confezionare storie da diffondere su tutti i media, non solo cinema e TV ma anche libri, i direttori editoriali indicano allo scrittore di cosa hanno bisogno, e perfino l’arte di successo si serve delle analisi delle nude vite immagazzinate nei server dei social alla Facebook).
Una volta per comprendere il mondo usavamo classificare le entità o in naturali o in artificiali, ma oggi dove finisce il corpo umano e dove comincia la macchina? Quanto macchinica è oggi la vita umana e quanto sono umanizzate le macchine? La divisione tra naturale e artificiale non ci aiuta a leggere e interpretare il mondo che sta evolvendo, abbiamo bisogno di utilizzare un altro pensiero, che però la filosofia ha già messo a nostra disposizione.
Tra i vari nutrienti, che i grandi uteri-server raccolgono e gli annessi apparati digerenti mettono a disposizione del mercato, il controllo di ogni singola persona del pianeta è certamente quello più immediatamente politico.
Nel XVII secolo maturò il passaggio dal potere sulla morte al potere sulla vita, nacque la biopolitica; il panopticon, cioè il sistema di controllo a vista, e la disciplinarizzazione della società e del sapere costituirono due delle caratteristiche principali della rivoluzione del moderno che mise al centro il controllo della vita al posto del controllo della morte. Ma se il panottico analogico controllava da lontano e non entrava dentro le persone, il panottico digitale è dentro di noi; il panottico digitale è bidirezionale, allo stesso momento entra dentro di noi per succhiarci l’anima e per direzionarci: ci inocula reagenti e raccoglie le nostre reazioni; ci fa trovare dovunque andiamo in rete quello che stiamo cercando; ci chiude nelle «camere di risonanza» che ci convincono come tutto sia coerente col nostro modo di pensare; ci offre visioni e soluzioni concrete basate sull’analisi dei nostri comportamenti, sentimenti e emozioni, e che definiscono i desideri tante volte ancora non arrivati al nostro stato di coscienza.
In questo processo in atto non c’è più bisogno del gendarme armato, del delatore, noi ci offriamo spontaneamente al potere che ci domina.
Perché lo facciamo?
Se la galassia Google offre una serie di servizi di cui in rete non si può fare a meno, quali parti di noi soddisfano i social network visto che il 92% dei connessi, cioè due miliardi di umani, li usa quotidianamente?
I social si offrono come il luogo della soluzione dei conflitti tra l’essere solo e l’essere insieme, tra l’essere libero e l’essere sicuro, offrono il far parte di un gruppo e poter facilmente uscirne, l’avere un amico e poterlo cancellare con un clic, l’essere in ascolto ma eliminando tutti quelli che non si vogliono sentire, il creare gruppi (le chiamano “comunità”) perfettamente omogenei a se stesso, l’essere uno e trino, e anche moltiplicarsi all’infinito.
In poche parole i social si offrono come la soluzione alla solitudine e all’anonimia della società globalizzata, si offrono come il luogo dove avere relazioni con facilità, senza grande impegno, senza dipendenza dagli altri.
Dunque i social network sono la risposta “perfetta” alla grande difficoltà di “essere” dell’oggi, essi offrono soluzioni facili ai conflitti interiori e relazionali che affliggono le esistenze nel XXI secolo. I legami in rete sono leggeri, non impegnativi, immediati da creare e da sopprimere, e soprattutto sono tutti assolutamente sotto il controllo personale. Proprio l’opposto della condizione della vita della realtà fisica.
Se le promesse sulla facilità dei legami e sul non essere mai più da soli sono confermate dalla pratica, non si può dire la stessa cosa per la promessa di sicurezza, sul far parte di una comunità, o di essere una società. Proprio la facilità dei legami non permette appartenenza e dunque alla lunga neanche acquietare l’insicurezza e la solitudine.
Inoltre gli “incontri” in rete non sono così casuali, sono pilotati dagli algoritmi, il mondo che incontriamo è modellato sulle conoscenze che la rete ha di noi. Dunque quella che noi viviamo come libertà è una libertà pilotata. Pilotarci, archiviarci, dissezionarci e venderci, questi sono gli interessi delle grandi multinazionali padroni delle reti.
E’ possibile un agire non luddista in questa bio-psico-macchina?
Credo di si, bisogna impegnarsi in una ricerca dell’uso alternativo di essa.
Come?
-Con comportamenti empatici e dando un ruolo a tutti i sensi oltre la vista.
Loro, gli utero potere, contano sul solipsismo degli specchi che non permettono di incontrare l’altro, noi potremmo rispondere col sentirsi l’altro, mettersi nei panni dell’altro.
Questo comporta anche un cambiare il modo di scrivere e leggere: non solo scritti spot da consumare velocemente ma anche scritti che richiedono tempo, meditazione, studio. Non più letture attraverso il logos, perlomeno non fermandosi al logos, non più il valore del pensare e del dire che prevale sull’ascoltare, e soprattutto utilizzare l’empatia per penetrare gli specchi.
-Depotenziare il vedere che ci rende ciechi, cioè depotenziare le “faces” dei social network, che poi non sono altro che la nostra faccia rimandata dallo specchio schermo a cui siamo attaccati, magari potenziando lo studio del ruolo delle immagini meccaniche. Alcuni testi utili: Walter Benjamin (L’ opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e altri saggi sui media), Roland Barth (La camera chiara), Susan Sontag (Sulla Fotografia), Vilém Flusser (Per una filosofia della fotografia).
-Esaltare l’ascolto. Non solo inteso come l’essere disposti ad ascoltare ciò che viene da fuori ma anche nel senso di ascoltare noi nell’ascoltare. E ancora, nel senso di ascoltare suoni. La musica, per esempio, pur con tutti i limiti della unidirezionalità, è già un’alternativa, e in rete c’è quasi tutta la musica, ed è gratuita (si fa per dire). Sì, l’aleatorietà della musica spaventa, soprattutto chi è troppo ancorato al logos, ma proprio questa può diventare la pietra che infrange lo specchio.
-La poesia non si legge con gli occhi ma con l’anima, la poesia è esperienza empatica più di ogni altra scrittura, la poesia è antidoto alla velocità, alla superficialità degli schermi specchi, dunque la poesia è rivoluzionaria.
– Odorare la rete, gustare la rete, sfiorare le onde elettromagnetiche coi polpastrelli delle nostra dita, …, non so cosa vuol dire ma sento che si deve cercare.
Il che vuol dire anche farsi uomini, scendere nel fisico, nell’analogico, contaminarsi anziché sterilizzarsi, attraversare i territori fisici, sentire davvero gli odori, i sapori, i rumori. Chiudere gli occhi per vedere con i polpastrelli, con il naso, con le orecchie, con le papille gustative.
Dobbiamo perseguire un agire locale e globale coerente, per questo mi domando: ma oggi noi, davvero conosciamo il territorio che abitiamo e che vorremmo cambiare?