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img_9507Sull’altare della chiesa parrocchiale sto recitando una poesia al Bambin Gesù, sono vestito da cowboy con pistola nella fondina e il cappello sulla schiena. Sono truccato, ho il rossetto sulle labbra, un neo  finto sulla guancia destra, i miei capelli, biondi fino ai sei sette anni, sono già castani. Il costume da cowboy era di plastica, le pistole a tamburo cinque colpi si caricavano con dei tubetti tenuti insieme in due strisce di plastica, si spingeva il tubetto sul maschio del tamburo,  si staccava la plastica e si passava al prossimo tubetto. I colpi si vendevano a strisce di dieci, non ricordo quanto costavano, forse 10 lire per una striscia? Le sparatorie non  duravano a lungo. Non era ancora il tempo del western all’italiana, quello sarebbe venuto un quinquennio dopo, ma il mito del west lo avevamo lo stesso. Anche il mio amico Franco aveva un vestito simile. C’erano anche quelli di stoffa ma constavano di più. Dietro di me c’è un San Giuseppe interpretato da Vincenzo De Filippis, San Giuseppe con Maria erano i due personaggi più importanti. Quella rappresentata era la recita finale della processione del Bambino Gesù che si teneva il giorno dell’Epifania, allora i regali ai bambini li portava la Befana, e Babbo Natale  da noi non era arrivato. Dunque io avevo ricevuto in regalo il vestito e le pistole, … per poi andare alla processione religiosa. Non tutti recitavano sull’altare maggiore, anzi eravamo due o tre a farlo, io ero uno di questi. Se non ricordo male declamai una poesia di Sant’Alfonso dei Liguori, era in dialetto napoletano. La foto mi coglie con il braccio destro aperto in un gesto da pupi. Sulla mia sinistra riconosco Vincenzo D’Alessandro che dovrebbe essere vestito da indiano americano e Saverio Maddaloni che ha un vestito da maragià. C’è infine la signorina Battipaglia, non ricordo il nome, ma la chiamavamo così, lei teneva gli incontri di catechismo. Forse fu lei a scegliermi per la recita, forse fu anche lei ad assegnarmi la poesia, poesia che probabilmente era stata proposta dal parroco. La signorina Battipaglia me la ricordo come la più bella delle pie donne, in chiesa ci andava sempre con la sorella più grande, non erano sposate, come del resto tutte le donne impegnate nelle attività parrocchiali. Nella foto si sta mordendo il labbro, chissà perché. Non certo per un mio errore, ricordo di essere stato perfetto. Lei e Saverio hanno gli occhi puntati su di me, i due Vincenzo stanno guardando a destra, lì ci doveva essere un altro centro di interesse.  Curiosamente le bambine partecipavano col vestito della  prima comunione. Chissà perché rossetto, cipria, nei finti; Saverio che mi sta guardando ha le guance pittate come i clown, lo stesso San Giuseppe ha due nei finti sulla guancia destra. Sulla plastica rossa del mio vestito c’erano disegni di cowboy, a piedi e a cavallo, cinturoni, selle, lazo. Non posso fare a meno di notare le scarpe, sono infangate, le mie e quelle di San Giuseppe Vincenzo De Filippis. Quelle di Vincenzo sono con la punta verso l’alto e si può notare che sono state lustrate di recente. Per strada c’era fango di inverno e polvere d’estate, era facile mettere un piede in un pantano o prendere schizzi di acqua fangosa. Ricordo che avevo un sol paio di scarpe invernali, ogni anno mi compravano quelle nuove perché non duravano più di una stagione. Quando tornavo a casa prima di sera le mie scarpe erano un po’ più spellate di quando ero uscito, si perché ci giocavo a pallone. In quegli anni raramente si incontrava un bambino o ragazzo con le scarpette da calciatore, tutti giocavamo con quelle che ci trovavamo ai piedi. Quando arrivavano le scarpe nuove mia madre mi ricordava di non giocarci, e che se proprio volevo mi dovevo rimettere quelle vecchie. Ma io lo dimenticavo sistematicamente. Il campo era annesso all’edificio della scuola elementare e c’era sempre un pallone sgonfio a cui tirare calci prima di entrare o dopo l’uscita. Non ero maldestro ma neanche avevo un buon tocco di palla, non avevo neanche quel tipo di fisico che ferma gli attaccanti, dunque fui mediano, di spinta come si diceva allora, quello che si faceva il campo avanti e indietro senza mai fermarsi. In casa non avevo un posto per le scarpe, non ce n’era bisogno, avevo solo il paio che calzavo, dunque o erano ai piedi o erano a fianco del mio letto. Mi viene in mente delle scarpe di mio padre, un paio nere e un altro marrone, erano le scarpe buone, quelle che metteva nei giorni di festa,  ed erano chiuse nella parte bassa del suo comodino, quando l’aprivo c’era l’odore delle aniline e delle cromatine per lucidarle. Ricordo pure che nel cassetto in alto dello stesso comodino c’erano i suoi oggetti personali, un paio di anelli, un orologio, cartucce calibro 12, erano per la sua doppietta belga, coppie di lacci, una croce al valor militare. Le cartucce nel comodino non erano propriamente da caccia, erano caricate a capriolo e a pallettoni, due calibri capaci di uccidere uomini o animali di grossa stazza, animali che dalle nostre parti non c’erano, dunque erano per la difesa personale. Gli scarponi e i gambali per la campagna li teneva sotto al portone e nella stalla, le scarpe di tutti i giorni le posava nell’atrio del piano terra. D’estate usava molto i sandali, anch’io ne avevo.
Un paio di anni dopo, la chiesa parrocchiale fu chiusa per ristrutturazione e la parrocchia fu trasferita nella chiesa dell’Immacolata, quella attaccata a casa mia, fu allora che diventai chierichetto. Doveva essere la quinta elementare.