Cielo di marzo freddo che corre al tepore terso teso alle promesse le senti entrare sotto lo sterno è ora di mettere ordine per la nuova stagione Sdraiato sull’erba seguivo gli elefanti che dal mare andavano a est, prima delle colline del Pre-Appennino si trasformavano in orsi che si tenevano per mano, poi si scioglievano gli uni negli altri nell’azzurro quasi bianco, cosicché tornavo con lo sguardo a prendere una nuova carovana che giungeva da ovest. Anche lui arrivò da ovest, un viso circondato da barba e capelli rossi, occhi azzurri, mi guardava, da quanto stava lì? Chiusi e riaprii gli occhi, era ancora lì, di scatto sollevai il busto sui gomiti, mi sorrise, mi lasciai cadere giù, continuavo a guardarlo, cercavo di capire che razza di persona fosse, non avevo mai visto un uomo con capelli e barba così incolti, sembrava un disegno di barbaro uscito dai libri di storia. Mi rialzai sui gomiti, era alto e magro, aveva blue jeans consumati e un giubbotto di pelle nera con collo di pelliccia, maniche e girovita in maglia di lana. Portava un tascapane a un fianco e uno zaino verde all’altro lato, sorrideva. - Ciao, dissi. - Le nuvole diventano sempre pioggia. Non era italiano. Rimasi immobile e senza parole. - I sogni possono diventare realtà o non possono, le nuvole finiscono sempre in pioggia. Non capivo e non sapevo che dire, lui posò il tascapane, poi lo zaino, sedette a fianco a me, tirò fuori una sacca con tabacco, una cartina e arrotolò una sigaretta. Cominciavo a provare un certo disagio. - Vuoi una? - No grazie, ho le mie. Riuscii a dire. Anche mio padre si fa le sigarette ma il tabacco è troppo forte, a volte usa i mozziconi di quelle già fumate, li conserva apposta. - Prova, prego! La presi, lui ne stava arrotolando un’altra, poi tirò fuori un accendino a petrolio, “come quello di mio padre” pensai, accese la mia e la sua. - Profuma molto. Cos’è, tabacco da pipa? - No, è marijuana, scandì. - E che cos’è? - E’ buona. Si può fumare da sola, io la mischio con tabacco. - Mi chiamo Saverio e tu? - Neal. - Uuuh! E’ forte. Mi sono spaventato a vederti, ho pensato, sto sognando. Somigli un po’ a Gesù Cristo, adesso mi fa un po’ ridere, ma prima sono rimasto senza parola, si senza parola. Sei inglese? - Americano. - Americano? Tu vieni dall’America? Annuì. Continuavo a guardare il cielo, erano tornate le rondini, prima non le avevo viste. - Guardi le nuvole? - No, le rondini, e tu guardi le nuvole? - Si, le guardo. Ho visto le nuvole rade dell’Arizona, quelle nere che escono dalla terra nel Mississippi, quelle che corrono veloci su New York. Ho visto tempeste di nuvole. Posti dove tutto l’anno sono nuvole, e piove, tutte le nuvole si sciolgono in acqua. Si era sdraiato sull'erba tenendo il busto alzato su un gomito e rivolto verso di me. -Si. Lo hai già detto. Tre volte. Si sciolgono in pioggia, e allora? Tanto ci saranno sempre altre nuvole, no? Tutte queste storie delle nuvole, parlare per giorni di nuvole, e cosa sono le nuvole per noi? Niente, ci puoi fare i soldi? Ci puoi trovare una ragazza? No. Le puoi bere, eh?, si, le puoi bere, vuoi bere le nuvole, sali su?, no aspetti che ti cascano in bocca, la lingua fuori e tict, tict, tict, e poi tict, tict - Vuoi far ridere? - Già, in effetti non sono spiritoso. Parla tu allora. Di te, che ne so, che fai, il camminatore? eh, eh, eh!? Ma lo sai che sei strano? Mi sembri strano, parli straaano, non è la lingua. Ma è che, ma chi sei Gesù Cristo? Cosa mi vuoi dire con le nuvole che diventano sempre pioggia? Lo sanno tutti, perché insisti? Vuoi dire altro? Eh dillo. Ma chi sei tu? Mi lasciai cadere sul dorso. - Io dico una cosa semplice e vera, se tu pensi altro, tu pensi altro. - Uh, uh. Sei buffo, mi sembri uscito da un libro, forse sei una nuvola, forse sei davvero una visione, forse mi sono addormentato e sto sognando. Sei buffo, buffo, non esisti. Tutti quei capelli arruffati, ma ti lavi? ah, ah, ah, ......, No scherzo. E poi quella barba, così secco, stecca di bigliardo, qui ti avrebbero chiamato stecca di biliardo, oppure mazz’ 'e scopa, ih, ih, ih. E dove vai con quello zaino, come fa uno come te ad arrivare, qui, tra queste colonne? Colonne! ..., pilastri di capannoni industriali. Non ci avevo pensato: Colonne di cemento! Qui c’era la vecchia Alfa Romeo, più in là c'erano gli hangar dell’aeroporto militare. Tutto distrutto nell’ultima guerra, distrutto da voi americani. Bum! Budbumm! Bombe da tutte le parti. Bum! Budbumm! Qui, in tempo di guerra si costruivano motori di aereo, non automobili. Sono rimasti questi pilastri di cemento, e qualche trave come quella là piegata al centro, uno di questi giorni ci cade addosso, in mezzo prati di margherite e campi coltivati. Potrebbero essere le colonne di un tempio del nostro secolo, quelli greci, quelli romani, ed ora questi qua. Una specie di Paestum del XX secolo. Ci sei stato a Paestum? Ecco siamo in mezzo al tempio di Poseidone, tu potresti fare il sacerdote, meglio, l’oracolista, ah, ah, ah. Qual è il volere del dio? - La marijuana a volte fa parlare tanto, a volte fa ridere, così, per nulla. Anche lui si lasciò cadere sul dorso. - Rido perché ho fumato? - Uhm uhm! - Mi viene da ridere per questo tabacco? - Fa sentire di più, a volte è allegra a volte è triste, ora a te viene divertente. - Le parole, sento che mi si arrotolano in bocca, galoppano, non c’è freno, non c’è proprio freno, perché non c’è freno? Oh, oooh! Oooooh! Dico a te, ma poi si ferma? Non è che continua sempre così, a vuoto! Ooooh, proprio a vuoto. - Lascia essere, lasciati scivolare nella libertà. - L’erba mi sembra più dura, sento i fili toccarmi la schiena, speriamo che non viene un insetto e mi comincia a parlare. Ah! ah! ah!, te lo immagini un bruco che mi dice “signore spostatevi, non possa mangiare la mia cicorietta” ah ah ah, la sua cicorietta? E quando l’avete comprata, andate via signor bruco che non è aria. E la farfalla “ehi!, se non lo fai mangiare non può diventare farfalla”. Scusatemi signora farfalla, voi avete tutta la mia comprensione. Mi sposto subito, a patto che mi portate un’ambasciata, dovete andare da Carla, si quella lì coi capelli rossi, ditele che mi piace tanto, che vorrei fidanzarmi con lei. Poi andate da Sara per dire se vuole scappare con me, non oggi, domani, stasera ho da fare, ho le prove, ecco andate e portatemi la risposta. No, ancora un piacere, passate per scuola e cambiatemi i voti sul registro, di tutti i professori, non molto, basta la sufficienza. Ce ne avrei un altro di piacere da chiedere, fatemi suonare la chitarra come Jeff Beck! - Suoni la chitarra? - Si in un complesso, un gruppo di amici, da due anni. Non siamo gran che, ci proviamo. Che altro puoi fare qui? …. Però andare su un palco e suonare, e cantare, le ragazze che urlano, è forte. Lo abbiamo fatto una volta, solo una volta, e quelle urlavano, urlavano, che cazzo urlavano, non gli importava niente di quello che suonavamo. Io tremavo e quelle urlavano. Io sbagliavo e quelle urlavano. Il prete, che ci è venuto a fare? C'era pure il sindaco. Ma c’era mia madre? Non l’ho vista. Non me la ricordo, secondo me non è venuta. Si vergognava, o forse si emozionava troppo. Mia madre sta sempre lì, a casa, o sotto al portone, o fuori al vicolo, poi torna a casa, mi aspetta, si preoccupa e mi aspetta, … Le nuvole di marzo passavano sul silenzio, le travi e le colonne, i passeri erano frenetici, una motozappa rullava il terreno per preparare la semina dei pomodori, un raglio, un belato, un canto di gallo, un richiamo, un fringuello, un galoppo, il rombo di un’auto, la sirena del turno, separati, puliti, lontani, affondavano. Aprii gli occhi, le nuvole passavano ancora, la sirena del turno?, c’era qualcosa di strano, la luce, la luce era cambiata, stava davanti a me, davanti a me? Che ora era? Guardai l’orologio, le cinque, le cinque del pomeriggio e stavo sul prato, avevo dormito, tre ore!? L’americano! Ma c’era stato davvero l’americano o lo avevo sognato? Facevo fatica ad alzarmi, mi sentivo intorpidito, la schiena fredda e inumidita dall’erba, i muscoli non riuscivano a mettersi al lavoro, provai ad alzarmi sui gomiti, mi lasciai cadere giù, mi girai su un fianco. L'americano c’era davvero, non lo avevo sognato, dormiva o aveva gli occhi chiusi, come si chiamava? - Neal! Oh, Neal, sei sveglio? - Siii. - Devo andare a casa, ho fatto tardi, dovevo stare a casa già da un ora! - Non ti preoccupare. Non è male essere tranquillo, la mente è libera, resta ancora così, non fare una cosa che il corpo non vuole fare. Mi rimisi giù, a che ora c’era il prossimo treno? Cosa avrei detto a casa, tra poco tornavano dai campi e non mi trovavano. - Chi è Sara? - Chi? - Sara, si chiama cosi, no? - Ah, Sara. Ho parlato di Sara? - Prima hai parlato con un bruco, poi con una farfalla, hai mandato a dire a Sara se vuole scappare con te. - Ne ho dette di cazzate. - Sara è la tua ragazza? - Magari. Sta con uno che ha la Mini Minor blu. E somiglia a Gianni Morandi! E lei è una fanatica di Gianni Morandi da sempre. Le piace la canzone “La fisarmonica”. E lui suona pure la fisarmonica! Eh che cazzo! - A te piace. - Uhm uhm. E pensare che mi veniva appresso ed io facevo finta di niente, poi si è messa con un altro e a me è venuta un fuoco allo stomaco. - Succede, perché non dici questo a lei? - Per far che? E poi fosse facile! Quando la vedo mi dimentico quello che mi sono detto e ripetuto tante volte. Anche con Carla, una ragazza dai capelli rossi, delicata, molto carina. Non riesco a dirle niente di bello, non mi viene niente di interessante. - Anche di lei hai parlato. - E ti pareva. - Sembri Charlie Brown. - Chi? - Charlie Brown. Non conosci i Peanuts? Charlie Brown è un bambino dalla testa rotonda che è innamorato di una ragazza dai capelli rossi. La guarda da lontano, da dietro gli alberi, dall’altra parte della rete, dal lato opposta del prato. Gli amici lo spingono ma lui non la raggiunge mai. Arriva a sedersi sulla panchina a fare merenda vicino a lei ma non riesce neanche a girarsi verso di lei, neanche un ciao. In fila a prendere l’autobus, ci va di proposito ma niente, sull’autobus lei va a sedersi al suo fianco e lui guarda il paesaggio scorrere. - Allora sono proprio come lui. - Un perdente! - Si, sono proprio Charlie Brown. - Non esistono i perdenti. Se tu vuoi tu puoi. - E’ che mi prende una paura, allora parlo d’altro. - Tu hai paura di scoprire che quello che tu vuoi tu puoi fare. - Devo tornare a casa. Mi alzai lentamente, andava meglio. - Cambi discorso? - E tu cosa fai adesso? - Non lo so, devo trovare un posto per la notte, forse dormirò alla stazione. Si alzò anche lui, si caricò lo zaino sulle spalle, poi prese il tascapane. - Alla stazione? - Ho un po’ di soldi, ma non li spendo per dormire. Potrei dormire sul prato, qui, perché spendere i soldi per andare in una stanza? Camminammo lungo i pilastri di cemento dei vecchi capannoni, alla luce del tramonto le ombre si erano allungate, i pilastri sembravano ancora più alti. Prendemmo i viottoli che conducevano alle nuove fabbriche e poi per la stazione. E se lo portavo con me? - Puoi venire a casa mia. Tu vieni con me, puoi dormire a casa mia se ti va. Dirò che ti ho incontrato all’uscita da scuola, che hai chiesto informazioni, ti ho accompagnato da un tuo amico, ma lui non c’era. Ho perso il treno, non sapevi dove andare e ti ho invitato a casa mia. Che ne dici? - Va bene per me, i tuoi genitori? - A casa mia si lamentano sempre un po’, però alla fine va sempre bene. - Prendemmo il treno delle 6,05, arrivammo a casa che scendeva il buio, i miei si stavano per mettere a tavola. - Che vai facendo a quest’ora? Mio padre brusco, come mi aspettavo. - Ho perso il treno, dovevo aiutare questo ragazzo americano. E’ rimasto senza un posto dove andare. Un sua amico di Pomigliano lo aveva invitato a casa sua, lui è venuto dall’America e l’amico non si è fatto trovare. Ho pensato che potevamo ospitarlo noi per qualche giorno. - Stavamo scarsi a fetenti! Disse guardando da un’altra parte. Sempre così quando entravano i miei amici all’ora di cena. Si perché la porta sulla strada era sempre aperta e quasi ogni sera entrava un amico, e anche più di uno. C’era chi bussava e anche chi non lo faceva, entrava, buonasera! E mio padre: “Stavamo scarsi a fetenti”. L’amico si sedeva oppure restava in piedi, aspettava che finissi di mangiare per uscire insieme a me. - Niente storie adesso!, mia madre intervenne. Lui può dormire in una delle stanze su. Mentre preparo i piatti voi due andate in soffitta, prendete una rete e un materasso, li portate giù e li sistemate, poi tu vai su a prendere le lenzuola nella cassa della biancheria e un asciugamano dal comò. Prendi anche dalla scatola una lampadina che quelli che sono andati via non l’hanno lasciata. Sistemammo il letto nella stanza grande, avvitammo la lampada al lampadario di vetro celeste che pendeva dal soffitto, vicino al letto poggiammo momentaneamente lo zaino e il tascapane. Il bagno non aveva la doccia, per questa doveva venire al nostro, scendere le scale e risalire alle nostre stanze. Quella sera mangiammo pasta e patate, una specialità contadina che a me piaceva molto, dopo provolone piccante Auricchio. Il vino rosso di mio padre, tannico, scuro, amaro, appena spillato dalla botte era buono. Fu molto apprezzato da Neal, diventò allegro, si arrotolò una sua sigaretta. - E’ trinciato? Disse mio padre. - E’ questo, disse Neal mostrando la marca sul contenitore. - Ogni tanto le faccio anch’io, prima molto di più, adesso fumo Nazionali, senza filtro. - Vuoi una mia sigaretta? - E fammela provare. - La vuoi anche tu? disse rivolto a me. - No grazie, mi è bastata quella di oggi. Arrotolò un'altra sigaretta, tirò fuori l'accendino a petrolio e accese per mio padre e per se. - Hai l’accendino come il mio, l'hai comprato in Italia? - No in Francia. - E’ troppo aromatico per me questo tabacco, non mi piace così odoroso, preferisco i tabacchi forti che bruciano in gola. Tirò ancora, forte come faceva con le sigarette arrotolate che consumava in quattro o cinque tirate. - Uhm, mi dà fastidio, preferisco una delle mie. La spense e si accese una Nazionale senza filtro. - Quello lì, e indicava me parlando a Neal, da anni fuma, lo so, ma davanti a me non è ancora ora. E sarebbe meglio se non prendesse il vizio. Io ho fumato la prima volta quando andai a fare il militare, e quando tornai avevo ancora vergogna di fumare davanti a mio padre. Ti ricordi quando venisti ad accendere la tua sigaretta vicino alla mia? - Mi ricordo si, ancora mi fa male. - Una sera, sarà stato un anno fa, no due, stavo al Circolo, seduto a vedere la televisione, quando si avvicina un ragazzino e mi chiede di accendere vicino alla mia sigaretta. Era lui. Al buio non mi aveva riconosciuto. Ha abbassato la testa sulla mia sigaretta e io l’ho fatto accendere, mi veniva da ridere, poi ha alzato la testa per dirmi grazie, e un altro po’ gli cadeva la sigaretta dalle mani. Mi veniva da ridere, ho fatto la mossa di mollargli un ceffone, che dico, ho fatto solo un cenno con la testa e lui è scattato all’indietro per proteggersi il viso, ha sbattuto al muro, una botta. Ho pensato “si sarà spaccato la testa”, si sono girati tutti per il rumore. Dopo tutti a sfotterlo. E’ schizzato via. E un’altra volta è successo la stessa cosa alla stazione. Se non arriva all'ultimo momento si fa la sua prima sigaretta, è vero o no? - Si, si. Dici sempre le stesse cose. - Mezzo addormentato com’è, tira fuori la sua Esportazione e mi fa: Scusate mi fate accendere? Ed io: “Se non te ne vai ti faccio vedere io quello che ti accendo”. “Papà”, fa lui come avesse visto un fantasma. E si è allontanato di scatto. Non te l’aspettavi di trovarmi alla stazione eh? - E che ne so io che vai a prendere il treno. E lo stesso che prendo io! Sarai uscito di casa mezz’ora prima. - Si, dovrei fare come te, sempre l’ultimo ad arrivare. I suoi amici salgono, si affacciano al finestrino e vedono se lui riesce a rincorrere il treno che si è avviato. Un giorno potresti inciampare, cadere. E’ meglio che non prendi il vizio, del fumo! - E quello il figlio di chi doveva prendere? Dal padre. Tu fumi e fuma pure lui. Smetti pure tu, ci guadagni di salute e ti ritrovi pure la tasca piena. La sera quando ritorna puzza tutto, la giacca, i pantaloni, i capelli, una cosa insopportabile! Mia madre, anche lei le stesse cose. - Ma che male faccio a fumare? Toglimi pure le sigarette, che ci rimane? Come hai detto che ti chiami? - Neal. - Bravo Neal, ti piace il mio vino? - Si, buono. - E’ un buon bicchiere di vino. Uso la mia uva, poi compro quella di Puglia, le mischio e faccio un vinello equilibrato. Qui molti usano quella di Foggia assoluta, è troppo forte, non si può bere, non è un vino da pasto. Il mio è più leggero, così ne puoi bere di più. Di dove sei Neal? - Di San Francisco, America. - Ma lo sai che mio padre è stato in America? Si, quand'era giovane, prima di sposarsi, c'è stato cinque anni, dal 1903 al 1908. Ha lavorato a New York, costruiva le ferrovie, le metropolitane, diceva che New York non finisce mai. - New York è la città più grande del mondo. San Francisco è più piccola, forse è come Napoli. - Mio padre diceva delle parolacce americane, me ne ricordo una, animal bitch! Che vuol dire Figlio di puttana, no? Mi diceva che le strade andavano per sopra e per sotto il mare, che i grattacieli sono come montagne. Durante la guerra ha salvato un pilota americano, quando lo videro scendere col paracadute i contadini che stavano in campagna accorsero per vedere, decisero che fare mentre quello era ancora appeso a un noce. Scommisero sugli americani e non lo consegnarono ai tedeschi. Mio padre, che era l'unico che lo capiva quando parlava, si offrì di nasconderlo. Mentre io mi facevo a piedi dal Dnieper a Verona mio padre ogni giorno portava da magiare all'americano nascosto nel pagliaio. Quando c’erano i rastrellamenti tedeschi lo faceva scendere nel pozzo, tra il muro e il livello dell'acqua c'era una grotta prodotta dallo smottamento del terreno. Lui rimaneva nascosto lì anche per un giorno intero. L’ho conosciuto nell’autunno del 43. Dopo l’8 settembre scappai dalla caserma di Verona e tornai a casa. Da Verona a Napoli, sempre a piedi! Lo voglio ricordare perché adesso non ci si rende conto di cosa può essere la guerra. Questo pilota poi mi ha portato a lavorare nella base americana, quasi due anni sono stato a caricare e scaricare viveri, munizioni, vestiario, farina, dalle navi militari e civili ai vari depositi sparsi a Napoli e nell'entroterra. L'Italia era in ginocchio, a Napoli c’era la fame nera, non in campagna, che le donne e i vecchi continuavano a coltivare i campi. Dove ti sei sistemato tu, in quelle due stanze c’erano otto sfollati napoletani. Gli americani distribuivano farina, zucchero; ritornò il caffè, il cotone,... e anche questo servì a battere il fascismo. - Se mi ricordo! – mia madre raccontava la guerra subita dai civili - Dovevamo nascondere il mangiare, i tedeschi venivano a sequestrarlo. In uno dei nostri campi scavammo una fossa e interrammo grano, granturco, patate. Di notte andavamo a prelevare le granaglie, si passava al mulino, si macinava e si portava a casa. C’era il coprifuoco, se ti prendevano ti fucilavano, c'era una rete di persone che controllava i tedeschi. Non lontano da casa mia i partigiani attaccarono una pattuglia, uccisero un tedesco e ne ferirono un altro. Quando arrivarono i rinforzi rastrellarono quindici paesani e li fucilarono sul posto, proprio davanti casa mia. E le bombe! Le bombe cadevano sempre di notte! Di giorno la paura è un’altra cosa, ma la notte,…, la notte si dormiva vestiti, dormivi?, un dormiveglia, attenti a sentire il suono delle sirene dell'antiaerea. Ci svegliavamo di soprassalto e scappavamo nelle campagne, lontano dai ponti, dalle stazioni ferroviarie, dalle caserme, dalle fabbriche. Nel 43 io facevo compagnia a mia sorella che aveva un bambino piccolo, il marito era sul fronte greco. Una notte suona l’allarme, ci precipitammo giù dalle scale, eravamo sull'ultimo gradino quando una bomba incendiaria cadde sul tetto, una palla di fuoco, in pochi attimi la casa fu distrutta, ci salvammo per miracolo, mia sorella perse tutto ma salvammo la vita. Quella notte mi ha lasciato un tremore addosso che non se n'è più andato. Mia madre ogni volta che raccontava quest’episodio si commuoveva e abbassava la testa. - Signora io potrei andare in guerra. Gli Stati Uniti sono in guerra, potrebbe toccare anche a me. - Ancora la guerra? - In Vietnam. - Lo dicono nei telegiornali. Ma è una guerra limitata, una guerra coloniale. Mi inserii. - Piccola? Ci sono centinaia di migliaia di americani laggiù e non bastano. Il presidente Jhonson chiede ancora altri mezzi ed altri soldati. Avevano detto che sarebbe durata poco tempo, sono passati cinque anni e non si vede la fine. - La guerra è una brutta bestia, tutto ma non la guerra, solo chi non c’è passato può pensare alla guerra. - I giovani americani si ribellano, nei campus quasi tutti contro la guerra, strappano le cartoline di chiamata. Molti giovani preferiscono andare in galera. Se mi chiamano io rifiuto. - Tocca sempre ai giovani la guerra, tanti giovani nel meglio degli anni, quando devono vivere le cose più belle devono andare a morire, per che cosa?, per chi?. Fate bene a non tornare in America. Mio padre, braccia e testa sul tavolo della cucina, russava. - Guarda questo. Esce ogni sera! Non sta mai in casa. Piove, tira vento o fa la neve, lui esce. Se sta in casa s’addormenta. Luigi vai a letto. Mio padre non rispondeva, lo scosse con una mano, si svegliò di soprassalto. - Vattene a letto, stai russando. - E allora? lasciami dormire. - Non mi piace che dormi con la testa sul tavolo - Ci dormo io, non tu. E si ributto giù bofonchiando qualcosa. - E’ sempre così, quelle rare volte che non esce si addormenta sul tavolo. - Lascialo dormire, ci penserà lui a salire su. Neal, ti va di uscire? - Sempre uscire, e i compiti? Non hai studiato per niente, domani come vai a scuola eh? - Mi svegli alle cinque, studio domattina. - Studi la mattina, a letto, mezzo addormentato, mezz’ora, ma che studio è? Chissà quest’anno come va a finire. Devo dire a tuo padre di venire a parlare con i professori. Camminammo per il corso. Neal mi disse che i miei genitori erano buoni, gentili, che era contento di essere venuto con me. Gli chiesi quanto tempo pensava di restare, mi rispose che non sapeva, non aveva progetti, dipendeva anche dai miei genitori, lui poteva restare due giorni come due mesi, non sapeva. Passò una Mini, c'era Sara col suo fidanzato. - Hai visto quella ragazza? - E' Sara? - Si, proprio lei. - Bella. - E' gioiosa, spontanea, una che non si vergogna dei suoi sogni. E' la libertà all'improvviso. - Devi parlare a lei, lo devi fare. - Tu ce l’hai la ragazza? - E’ una lunga storia, la racconto un’altra volta. - Anche dell’America mi devi raccontare. Come si vive, la musica, questa storia della guerra. E poi di tutti i paesi che hai visitato, la gente che hai incontrato. - Forse ti dirò tutto, forse no, non so, adesso vado a letto, mi accompagni? L’accompagnai e andai suonare. Raccontai dell’incontro che avevo fatto. - La marijuana è una droga, disse Rino - Ma che stai dicendo? E’ come il tabacco. - Io ho letto che è una droga, che i giovani in America la fumano e poi ne vogliono sempre di più fino a passare a droghe sempre più pesanti come la morfina e l’eroina. Alcuni muoiono per questa droga. - Forse non è la stessa. Io l’ho fumata e vi posso assicurare che è come un tabacco, no, è il tabacco e il vino assieme. Pensate, senza saperlo l’ha provata anche mio padre. Quando l’ho fumata parlavo, parlavo, e ridevo, un sacco di cazzate, cose che non avrei mai detto, poi mi sono addormentato. Vi voglio far conoscere questo Neal, è un po’ strano, a volte non lo capisco, viene dalla California, San Francisco. - Magari conosce qualche cantante famoso, glielo hai chiesto? domandò Peppe. - No, non ci ho pensato. - Forse conosce anche delle canzoni nuove, complessi e cantanti che non conosciamo. Gli hai chiesto se sa suonare? Quelli sanno tutti suonare, sicuramente ne capisce. Rino cercava sempre nuovi spartiti. - No. Però gli ho detto di noi e lui niente. Forse non suona, forse non è interessato alla musica. - Invitalo a venire domani sera alle prove, disse Lolò. - Si, glielo dico, ma può darsi che domani prende lo zaino e se ne va. Provammo “Bang bang” nella versione di Sonny e Cher, “Sognando California” versione Camaleonti e “La casa del sole”. Venivano abbastanza bene, erano semplici, orecchiabili e non stupide. La mattina dopo finii con l’entrare in classe, non avevo voglia di andare in giro, o meglio volevo farlo con Neal ma dormiva e la sera prima non ci avevo pensato. Quando tornai a casa non lo trovai. Mia zia disse che era uscito verso mezzogiorno, lo aveva invitato a mangiare qualcosa, aveva preso solo una mela e aveva chiesto come si faceva ad andare al campo. La sera lo vidi tornare sul carro, teneva le redini, i miei lo lasciavano fare, tutti contenti. Mio padre spiegava come si toglieva la cavalla da sotto il carro, come abbeverarla, gli diceva che il mese prossimo doveva partorire, che adesso doveva ridurre gli sforzi. Dopo misero a bagno barbabietole essiccate e crusca per il pasto serale delle mucche. “Questa sera munge anche Neal” annunciò mio padre. Avevamo tre mucche, due producevano latte, quando veniva la primavera e le giornate si allungavano le mungevo di solito io, loro arrivavano dalla campagna sempre più tardi e le mucche soffrivano. Mia sorella pensava a preparare la cena. Mio padre con una mammella in mano spiegava a Neal come doveva fare, la mucca scalciava, poi Neal cominciò a mungere e mio padre uscì dalla stalla. - Ma cosa sta succedendo? - Ho chiesto a tuo padre se potevo lavorare per ricambiare la vostra ospitalità, lui prima ha detto che non mi dovevo preoccupare, poi ha accettato. Ha cominciato a farmi vedere quello che devo fare. A lui piace insegnare come si lavora nei campi. - E mia madre? - Si anche tua madre è contenta, ho fatto il lavoro suo, così lei ha riposato. - E quando pensi di andare in campagna? - Non so, due, tre giorni a settimana, forse tutti i giorni, quando tuo padre chiede il mio aiuto. Non so ancora. - Ma tu sai fare il contadino? - Qualcosa, ho falciato fieno e raccolto patate in Irlanda, poi le ciliege e le fragole in Inghilterra, infine l’uva in Francia. Ho anche fatto altri lavori, spalato neve in Val d’Aosta, scaricato merci, pulito le strade, sistemato giardini, consegnato merci a casa delle persone, ho anche tenuto dei bambini. Faccio quello che posso fare, quando ho voglia di fare. Ho riempito il secchio. - Aspetta te lo scarico io. - Cosa fate con il latte? - Lo vendiamo ad un signore che viene a raccoglierlo, lo beviamo noi, qualche volta ci facciamo formaggio fresco, a volte lo bevo direttamente dalla mammella, mia madre dice che non si deve, si possono prendere delle malattie. - Come si fa? - Semplice, guarda: prendi la mammella, la giri verso la bocca e spruzzi. Il getto mi arrivò in pieno viso, una parte in bocca, una parte mi lavò la faccia. - E’ difficile tenere la mammella sempre precisa, un po’ si perde. Neal provò e si lavò la faccia, i capelli e la barba erano inzuppati di latte, rideva, anch’io, lui ad una mammella ed io ad un’altra, un bagno di latte. - E’ caldo! E’ buono! Non finì di dire buono che la mucca scalciò e scaraventò su di noi il secchio col latte che Neal aveva in mano. - E adesso? - Adesso è meglio che finiamo di mungere e poi andiamo a lavarci. Si finì appena in tempo per la cena: minestra di verdure in brodo e lesso con patate. Alla fine della cena mio padre chiamò da parte Neal, gli parlò per un po’ e poi uscì. Proposi a Neal di venire a conoscere i miei amici del complesso. Accettò. Mio padre gli aveva chiesto se aveva bisogno di soldi e lui aveva risposto di no. Alle prove, dopo le presentazioni ci furono le domande degli amici: Neal aveva imparato dalla madre a suonare il piano, per conto suo aveva strimpellato la chitarra e aveva trovato posto nella banda del college. Amava le canzoni di Bob Dylan e la musica della west coast, gli piacevano molto i Beatles e i Rolling Stones e poi la musica jazz, anzi, la musica afro-americana. Era laureato in sociologia e invece di fare il master si era messo a girare il mondo. Erano quasi due anni che se ne stava in giro. Aveva iniziato con il Messico, il Costa Rica e il Nicaragua. Era passato in Europa: Irlanda, Gran Bretagna, Francia, dalla Francia in Marocco e poi di nuovo in Francia e adesso Italia. Conosceva oltre l’inglese, lo spagnolo, il francese studiato a scuola ed ora stava imparando l’italiano. Rino gli propose se voleva suonare qualcosa, se poteva farci conoscere le canzoni di Dylan, lui disse un’altra volta. Gli chiesi se poteva aiutarci a tradurre i testi di alcune canzoni, o almeno raccontarci di cosa parlavano. Ci parlò del movimento beat, Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, Peter Orlowsky, Lawrence Ferlinghetti, questi scrittori e poeti andavano nei campus universitari a incontrare gli studenti, tenevano reading di poesie, invitavano a boicottare la guerra contro il Vietnam. Dylan doveva molto a loro. Ci raccontò di un’America in fermento di idee e movimenti, Martin Luter King e i diritti civili, Malcom X e la liberazione degli afro americani. Un universo lontano e sconosciuto. L’uso delle droghe per allargare lo stato di coscienza, quelle per fuggire dal mondo rifiutato, quelle per stare bene assieme, tanta voglia di buttarsi anima e corpo, tanto coraggio. Ci promise che un’altra volta avrebbe suonato un po’ di musica che lui conosceva, ora voleva ascoltare noi. Suonammo “Come potete Giudicare”, “Dio è morto”, “Noi non ci saremo”, Auschwitz”, “Painted black”, “Pugni chiusi”. Rino tirò fuori tutta la sua vecchia rabbia. Si perché dopo la grande sfida era prevalsa la linea “leggera” che lui subiva da noi altri. I discorsi di Neal, uno che veniva dal futuro, dimostravano che Rino aveva avuto sempre ragione e gli altri, a partire da Roberto per finire a Lorenzo e Peppe, erano solo degli ignoranti. Io ero un caso a parte, mi piacevano i discorsi forti e la musica dura, ma volevo pure piacere e per piacere dovevamo eseguire canzoni di successo. Quella sera il complesso era suo, più suo di prima. Neal, in una delle poltrone deposte nella cantina, fumava. - Mi piace il ritmo di “Come potete giudicare”, mi piace la voce gridata. La canzone italiana noi la conosciamo per la melodia, questa sembra un’altra cosa. Però, se ho capito il testo, non ho sentito un parlare in prima persona, un’esperienza della propria vita, il racconto di una storia. Questo il suo commento. Facemmo notare che Auschwitz raccontava dei campi di concentramento ed era in prima persona. - Si ho capito, ma nessuna racconta la vita vera di chi sta cantando. Lì l'autore immagina di essere un bambino morto nei campi di concentramento, giusto? Ma lui non è quel bambino. I Beat parlano solo di cose vissute in prima persona, vivere è poesia, vivere nella poesia, scrivere la vita. - In Italia forse si esprimono così i cantautori genovesi, però la loro musica è da piano bar, da night club, canzoni intime non per una piazza. Per noi è una generazione passata. Disse Rino Chiudemmo la baracca e uscimmo a camminare. L’aria della sera non era più fredda, camminammo molto per le strade di Marigliano. Parlammo di noi, dell’ambiente che era soffocante. Chiedemmo dello sport, della scuola americana, quanto costava andare a scuola, comprare un disco, una chitarra, un amplificatore. Neal ci disse che nelle scuole c’erano gli strumenti e si poteva suonare lì, c’era un maestro a disposizione, ci disse che le scuole avevano tutte le attrezzature sportive che tutti praticavano uno sport. Tornando a casa chiesi a Neal se la mattina dopo voleva venire con me perché non sarei andato a scuola, potevamo andare a Napoli. Rispose che aveva promesso a mio padre di andare in campagna, dovevano coprire le piante di patata con il terreno per proteggerle dalle gelate, disse che ne aveva per due giorni, dopo si poteva fare. Due giorni di scuola con quello già trascorso facevano tre di seguito, troppo. Niente ammucchiata nei bar o tra i ruderi di guerra, neppure partite di pallone o cinema, me ne andai verso la campagna che da Pomigliano sale al monte Somma. Camminai per strade periferiche fino ad incontrare l’autostrada Napoli Bari che allora era in via di completamento. C’era già l’asfalto. Gli operai stavano montando i guardrail e le recinzioni esterne. Nello spartitraffico centrale stavano piantando oleandri. Era grande l’autostrada, era partita da Milano per giungere a Roma e poi a Napoli, ora sarebbe arrivata a Bari da una parte, e all’imbarco per la Sicilia dall'altra. Mi piaceva quella strada dritta e larga che si perdeva all’orizzonte. Noi non avevamo una macchina, nessuno dei miei amici ne aveva una, noi non ci andavamo su quella autostrada ma a me piaceva lo stesso. I contadini rimasti senza terra, e furono tanti, chiesero un lavoro, ottennero posti da manovale nelle ditte costruttrici. Alla consegna dei lavori sarebbero rimasti senza posto e senza terra. “Che mangeremo?” “Tutte le terre spariscono per costruire case e strade, che mangerete voi giovani?”; queste le domande di quella parte del paese contro l’autostrada. Io invece ero a favore, da quando avevano aperti i cantieri avevo sentito quell’opera come qualcosa fatta per me, per il mio avvenire. Non sapevo in che senso, non sapevo come, ma io tifavo per lei. Non solo per lei, quando leggevo le pagine economiche dei quotidiani portati da mio zio controllavo il cambio, l’andamento del PIL, il listino di borsa, l’andamento generale e quello dei singoli titoli. Qualsiasi segno più mi inorgogliva. Inauguravano una nuova opera pubblica? Si posava una prima pietra? Nuovi quartieri crescevano nelle periferie delle città? Milano aveva i primi grattacieli? Il progresso, era il mio progresso. Più tardi avrei capito la differenza tra sviluppo e progresso, ma allora qualsiasi cosa in più, di qualsiasi natura, fatta da qualsiasi persona, era il mio progresso. Ora il mondo dei segni più, come mondo positivo, come opportunità del mio futuro, mostrava qualche crepa. Cominciavo a pensare che dovevo smettere di regalare il mio tifo, dovevo preoccuparmi di capire cosa era davvero buono per me e tifare per quello. Neal girava il mondo per cercare se stesso, io mai avevo pensato una cosa del genere, conoscevo invece molto bene i viaggi di chi emigrava. Tanti parenti sparsi per il mondo in cerca di fortuna. Da un po’ di anni tutti andavano in Svizzera e in Germania, come stagionali, altri andavano nelle città del Nord Italia, nelle fabbriche. Quelli della Svizzera e della Germania spesso lavoravano lì in inverno e tornavano per l’estate a coltivare i campi, o a lavorare a giornata nei campi degli altri. Noi non avevamo bisogno di emigrare, eppure mi sentivo il più povero dei miei amici. Avevo sempre meno soldi degli altri e dovevo ricorre a mille sotterfugi per procurarmeli, dalla vendita di nascosto dei libri dell’anno precedente, all’invenzione di tasse scolastiche inesistenti. E quando avevo bisogno di andare al cinema, o di avere una maglia, lunghe ed estenuanti pressioni su mia madre. Tutto questo potevo risolverlo con il lavoro, dovevo trovare un lavoro il più presto possibile. Non un lavoro precario, un lavoro sicuro, stabile. Non avevo fondo, non potevo andare lontano. Neal poteva, sapeva dove andare e cosa fare se il viaggio andava male, aveva un bel po' di certezze dietro le spalle. La mia forma di disperazione era diversa, la mia si accontentava di tenere la testa fuori per non affogare. Lui ha una laurea, conosce la musica, sa suonare diversi strumenti, sa cantare, parla quattro lingue, io cosa ho? Studiare, laurearmi, ... e dopo potrei mettermi in viaggio. Questa la conclusione della giornata mentre gli operai si avviavano a consumare il pasto dai loro contenitori di alluminio. E invece no, non ce la potevo fare, io sarei diventato qualcosa come loro, tutto quello che mi circondava mi spingeva su quella strada. I sogni dei miei amici, anche quelli delle ragazze che conoscevo, si fermavano al posto sicuro, neanche sognavano di diventare avvocati o medici di paese, un posto di lavoro sicuro. Gli operai tornarono al lavoro ed io mi avviai verso Pomigliano per poi dirigermi alla stazione a prendere il treno. Lì incontrai Salvina, mi chiese perché non mi facevo più vedere dopo aver fatto tanto per conoscere Carla. - Non ho nessuna speranza con la tua amica, me lo hai detto tu no? Andai via lasciandola una volta tanto senza parole. Non avevo voglia di tornare a casa, il pensiero di ritrovarmi sul treno con quelle persone mi dava nausea. Discesi le scale del sottopassaggio e presi per il binario che non era mai in funzione, sedetti sulle scale e fumai l’ultima delle mie cinque sigarette. All’arrivo del treno non mi mossi, avrei preso il successivo, sarei arrivato comunque prima del ritorno dalla campagna dei miei. Mi alzai e presi l’uscita verso le stradine che portavano alla vecchia Alfa distrutta. I contadini seminavano i pomodori. In ogni campo c’erano un uomo e una donna al lavoro, la moglie di un contadino sposava col marito anche il lavoro della terra. La donna che sposava un artigiano, o un operaio, quasi sempre stava a casa a crescere i figli. La contadina cresceva lo stesso i figli, cucinava, lavava e teneva in ordine la casa, in più lavorava la terra. Davanti l’uomo tracciava i solchi con il vomere di legno tirato dalla mucca, la donna dietro sciorinava i semi di pomodoro nel solco e con i piedi li copriva di terra, da quanti secoli facevano così? I loro figli erano a casa a studiare, si preparavano a non fare il lavoro dei padri appreso dai padri. Come si sentiva mio padre a sapere che il terreno comprato con tanti sacrifici non aveva per me alcun valore, anzi lo odiavo per tutte le estati trascorse a lavorare. A differenza dei miei amici odiavo l'estate, l'estate per me era la morte civile, da mattina a sera a lavorare sotto il sole, nella polvere, mani e piedi induriti dai calli. Odiavo la campagna non per la fatica che quella accresceva muscoli e resistenza, odiava la campagna perché mi isolava dagli altri, loro vivevano e io mi incupivo tra i solchi dei pomodori, sotto il mais tagliente, schiena piegata a rincalzare patate riprodotte da scavare in autunno. A mia sorella era andata meglio, prima era stata ragazza di sartoria, poi, preso il diploma di taglio e cucito, si era messa in proprio. Aveva i primi clienti, mostrava loro le riviste di moda, poi, una volta scelto il modello e comprato le stoffe, lei disegnava, tagliava, cuciva, misurava, rifiniva. In campagna lei ci veniva solo quando c’era da scavare le patate, raccogliere pomodori, granturco, ecc.... Io, finita la scuola, lo stesso giorno che uscivano i quadri, cominciavo ad andare in campagna, perché c’era bisogno e perché “l’ozio è il padre dei vizi!”. Delle volte potevano fare a meno di me ma “è meglio che stai qua con noi che andare vagabondando". Intanto i miei amici se la spassavano, tutti i giorni ad oziare, a giocare fino a qualche anno prima, e ora a corteggiare le ragazze, darsi da fare intorno a biliardi, biliardini, flipper, carte. Io tornavo dai campi che era sera, appena mangiato uscivo di gran carriera, accendevo la sigaretta e correvo a recuperare il tempo perduto, mi ritiravo tardi, le due, le tre anche le quattro, e non bastava mai, perché aspettavo, aspettavo ma non succedeva niente, ogni notte rimadava alla notte successiva. E adesso arriva questo americano che può vivere da signore e invece va nei campi a fare il cafone! Però se domani lui vuole smettere lo può fare, se si stanca non ha che da chiamare i suoi genitori e tornare agli agi che gli appartengono. E noi che restiamo? Non possiamo nulla davanti alle sue decisioni, lui viene, accende tutto, uno si affeziona, lui ti molla e se ne va. Neal, la tua libertà è facile e comoda.