Tore

di Salvatore, Tore, vedevi prima il naso, lungo, affilato, rotto, gocciolante, infiammato, ai lati gli occhi piccoli, spaventati, arrossati, poi la bocca, stretta, a coniglio, aperta, il tutto circondato da capelli all’indietro, dritti e chiari. Teneva le mani in tasca, le spalle curve, portava vestiti interi e camicia bianca, aperta d’estate, abbottonata ma senza cravatta. D’inverno, col freddo, indossava un cappotto marrone, grande, tutto quanto di taglia troppo grande, Tore pesava a malapena 50 kg e quei vestiti gli venivano regalati da un paio di famiglie caritatevoli.
Da anni era il lustrascarpe del paese, non che stesse tutti i giorni per strada con la sua cassetta, bastavano i giorni di festa. Durante la settimana lavorava a bottega di calzolaio, aveva cominciato da Zì Vicienzo, poi dal figlio Carmine, e quando questi decise di fare solo vendita Tore passò da Angelo.
Sedeva al banchetto col grembiule di tela pesante, incollare, cucire, tagliare, inchiodare. Una lampada col piatto di carta scendeva dal soffitto fino a un metro dal piano del banco di lavoro. Sul piano di lavoro cassette di chiodi, barattoli di colla, aghi, barattoli di aniline, la serie di forme per le scarpe, martelli, tenaglie, sul piano di sotto cuoio per le tomaie, per le suole e per i tacchi, lucidi di vari colori.
Quando parlava era difficile capire cosa stesse dicendo, aveva il setto nasale storto e rotto, con le adenoidi che ne completavano l’ostruzione, ma ai problemi di fonazione aggiungeva un parlare concitato, parole a mitraglia, frammenti accavallati e incomprensibili.
La respirazione difficile lo portava a tenere le labbra semiaperte, lì in mezzo aveva pensato bene di tenerci sempre una sigaretta, per lo più accesa, con il fumo che saliva lungo la proboscide e arrossava gli occhi; completava il tutto una virgola nera di caffè ai lati della bocca.
Non avrebbe dovuto fumare, era tisico.
Alla fine degli anni 40 era stato in sanatorio, poi agli inizi dei 50 la diffusione degli antibiotici, il miglioramento delle condizioni di vita sanarono la malattia, le menomazioni quelle però rimanevano, e anche i rischi di ricaduta.
Il padre morì della stessa malattia che lui aveva dodici anni, era il 1943, Napoli salutava l’arrivo degli alleati e la sua famiglia combatteva per sopravvivere al contagio che si erano passati durante la guerra.
Era ragazzo di bottega già a otto anni, alle elementari si era fermato subito, due volte la prima, ma sapeva firmare e col tempo aveva pure imparato a leggere. I ragazzi lo chiamavano Sulluzz’ per la sua camminata singhiozzante, poi negli anni 50, dopo la canzone di Carosone, lo presero a chiamare Caravan Petrol, in effetti col tempo l’andare a singhiozzo del bambino si era allentato in un più morbido ondeggiare da cammello.
Taciturno, come poteva essere altrimenti, scontroso, permaloso, diffidente, non aveva amici, qualche volta si accompagnava ad altri, ma si teneva sempre un po’ dietro. Quando si creavano quei gruppi di adulti, con l’uomo di panza al centro e la corte intorno, lui si metteva in coda, come usano fare i cani che seguono il padrone, per la verità era più l’accodarsi del cane randagio che per strada ti accompagna nella speranza di trovare il padrone che lo accudisca.
Naturalmente Sullùzz non aveva mai chiesto una cosa del genere, e gli uomini, d’altra parte così si fa coi i cani randagi, proseguivano, presi com’erano dal guardarsi in mezzo alle gambe.
Le due sorelle quando sposarono si trasferirono altrove, lui rimase con la madre, finché fu in vita.
Quando la madre era viva lo scrutava per saggiarne l’umore e la salute, lo spronava a fare le visite mediche e i controlli al sanatorio, gli faceva trovare i medicinali pronti da ingerire, chiamava la siringara per le punture che ogni anno doveva fare. Morta la madre si ritrovò a combattere con l’accidia che prende il malato cronico, il fardello della continua attenzione all’evolversi della malattia, l’affrontare ogni giorno l’elenco degli obblighi e dei divieti, il non potere affidare ad un altro la cura di se.
Quando apriva gli occhi la mattina si rigirava sull’altro fianco e si concedeva un sogno da sveglio. Il più ricorrente comprendeva la scomparsa della tubercolosi, con alcune varianti:
– miracolo
– perché la vita da malato era il sogno cattivo di una persona sana che, appunto, si svegliava e… “ma io sto bene. Era solo un sogno!!”
– perché si trovava un farmaco nuovo
– perché c’era un guaritore che gli imponeva le mani e la malattia spariva.
Faceva anche altri sogni, sogni da povero, giacché i poveri, a dispetto di quelli che li raccontano ricchi di fantasia, hanno un limitato bagaglio creativo, anche nei sogni. I colti, gli agiati, se incontrano le soluzioni ai problemi quotidiani che trova il miserabile, si meravigliano e ne raccontano, oh sapessi la gente del popolo cosa sa inventare riutilizzando la plastica di una bottiglia! Chissà cosa creerebbe se avesse altri mezzi!
Tutto questo sproloquio per dire che i sogni di Sulluzz’ erano del tipo:
– il Napoli vince il campionato di calcio;
– gli appare la madre in sogno, gli dà 3 numeri e lui ci fa un terno secco sulla ruota di Napoli (terni ed ambi, mai cinquine per diventare milionari);
– la donna che frequenta una volta al mese, a pagamento, gli dice che vuole cambiare vita e che lo farebbe insieme a lui, dopo il sogno si masturba;
– in piazza sbotta con tutti quelli che lo ignorano e li lascia pieni di meraviglia per il coraggio e per le cose che riesce a dire;
– chiede un visto per l’America, l’ottiene e va a lavora in una fabbrica di scarpe a Brooklyn dove guadagna uno stipendio venti volte quello che prende a bottega;
– un fulmine cade in strada, prende don Pasquale Soppressa e lo incenerisce, una voce tra le nuvole pronuncia un discorso contro la prepotenza;
– gli chiedono se vuole fare i servizi in una casa di appuntamenti, oltre ad avere un tot alla settimana se ne può fare una a scelta, anche questo finisce in masturbazione;
– gli appare Sant’Antonio e gli indica la strada per diventare frate minore al convento di Nola, li si dà alla preghiera e comincia a fare miracoli.
Portato a conclusione il sogno si alza, versa l’acqua nel bacile, lava mani, viso, collo ed orecchie, si asciuga, si veste e scende nel basso. Carica la macchinetta napoletana, la mette sul fornello a gas, aspetta la bollitura, spegne e capovolge. Mentre il caffè scende toglie il palo di legno dietro la porta che dà sulla strada, apre metà della porta stessa, si affaccia, dà un occhiata al cielo, saluta qualche passante, rientra, versa il caffè nella tazza, lo zucchera, prende una sedia, con l’altra mano la tazzina, siede davanti l’uscio di casa e sorseggia. Rimane una mezzoretta seduto con il paese che si anima e passa: carri di letame, bici, traìni, motorini, persone.
Rumori,
dei cerchi di acciaio dei carri sui basoli di basalto, dei ferri delle vacche, dei ferri dei cavalli, dei muli e degli asini accompagnati dallo scampanellio dei finimenti, schiocchi di scudisci, battipanni dai balconi, scampanellii di bici, spernacchiamenti di motorini, rintocchi dei quarti e delle ore, qualche rara parola, tutto va dove e come deve andare.
Odori,
del letame fumigante dai carretti, dei pastoni di biada e quelli di crusca, dei pentoloni dove cuociono patate o granturco per le bestie da lavoro, dello sterco delle capre passate per la distribuzione del latte munto direttamente nel bollitore di famiglia, di fiumi di urina di vacca, e poi di cavallo, asino e mulo.
Ritmi,
delle persone che si recano alla stazione Vesuviana passo lungo e spedito, delle persone che vanno in campagna passo senza fretta e salutano con gesto ampio e muto, di quelli che si recano a bottega, passo lento con pause, si fermano a scambiare due parole ai lati della strada, poi procedono e si rifermano, fino a destinazione.
Sullùzz seduto davanti casa non aspetta, è solo fermo, ci stanno le case, i marciapiedi, la strada, qualche camino che fuma, e Tore. Neanche sta pensando, che pensare non può che portare amaro in bocca. Si può alzare dal quella sedia un minuto dopo il caffè e due ore dopo, lo farà seguendo un gesto naturale, rimetterà la sedia dentro, chiuderà la porta a chiave e andrà a bottega, a mezza mattinata gli daranno l’incarico di consegnare le scarpe, quelle risuolate, quelle che avevano bisogno del soprattacco, quelle ricucite e quelle nuove.
C’è chi gli porge la mancia, 10 o 20 lire, ci fa dalle 100 alle 200 lire al giorno, l’equivalente di tre – sei caffè, oppure di un pacchetto di Nazionali senza filtro, o, se va alle 200 lire di un pacchetto di Esportazioni.
Il padrone della bottega gli da una paga settimanale di 8.000 lire, possono bastare, anzi lui si toglie anche qualche sfizio, come avere l’abbonamento per il San Paolo, ci va a vedere il Napoli di Sivori e Altafini, o di giocare a carte nel circolo la sera, 50 lire a partita di Quintiglio.
Da quando è morta la madre, e sono ormai otto anni, non ha fatto più controlli, si è affidato al destino, se lo vogliono sulla terra quelli che stanno lassù si diano da fare, e se hanno deciso che gli deve andare male, che può fare lui contro il loro volere?
Suo padre, pur sofferente da anni, non voleva morire, per due notti e un giorno aveva combattuto con tutti gli spasmi che avesse in corpo per espellere il male che lo divorava, alla fine sfinito giacque ancora quarantotto ore e si spense lentamente.
La madre si affidò alla misericordia religiosa e fu serena nel trapasso.
Il padre morì perché sconfitto, la madre perché era la parte che le era stata assegnata, ecco lui si sentiva come la madre.
Sullùzz era un arredo urbano mobile, fuori dai tempi lavorativi si poteva incontrarlo verso le otto di sera fuori al tabacchino, poi saltellando dietro qualcuno si trasferiva davanti al circolo socialista, lì sedeva su una delle sedie poste sul marciapiedi, prendeva il caffè, aspettava che si componesse il gruppo dei giocatori di quintiglio, quindi si trasferiva all’interno a giocare. Verso la mezzanotte usciva discutendo-litigando sull’andamento del gioco, risedeva davanti al circolo, poi o si ritirava, oppure partecipava alle passeggiate filosofiche per il corso. Durante la mattinata dei giorni di festa con la sua cassetta di lustrascarpe arredava il marciapiedi davanti al tabacchino.
Si era mai innamorato di una donna? Aveva mai chiesto la mano di una donna?
Uno come lui certe cose non ha il diritto neanche di pensarle, dunque neanche gli si chiedono. E’ normale che uno come lui non pensi all’amore, a sposare, o avere figli. E se poi le avesse pensate, beh, se le tenesse strette strette, farlo sapere voleva dire essere sfottuto per il resto della vita.
Dunque è ufficiale: Tore Sullùzz mai si innamorò, ne’ pensò di mettere su famiglia.
Morì per un assurdo incidente automobilistico. Era seduto davanti al circolo quando un’auto gli piombò addosso. Il conducente aveva perso il controllo del mezzo perché colpito da un infarto, l’infartuato si salvò e Tore morì sul colpo.
Povero Sullùzz, non se la meritava una fine così.
Eh, si, è stato sempre sfortunato! A proposito, ma come si chiamava? Voglio dire qual era il suo nome di battesimo?
Uagliò, vira che ce sta scritto n’goppo o manifesto.
Salvatore. Salvatore Tronchese, di anni 48 anni. Lo piangono le due sorelle. Le esequie muoveranno dal piazzale antistante la stazione Vesuviana alle ore 15,30 di venerdì 18 maggio 1972.
Al cimitero lo accompagnarono una decina di persone.
Come decenza voleva, di lui non rimase niente.
Fu l’ultimo lustrascarpe del paese.