Pietro era coperto di peli dal dorso dei piedi fino alla testa, come tutti i cafoni rasava la barba una volta a settimana, il sabato. La pelle scurita dal sole, le sopracciglia folte, gli occhi neri. Aveva perso i denti davanti, quelli che rimanevano erano neri di carie e gialli di fumo, fumava Alfa, le sigarette italiane più pesanti.
Un cristone possente, agile e inesauribile, saliva sugli alberi, caricava due sacchette di patate per volta, tirava il vomere al posto della vacca. Da capo paranza faceva tirare il collo a tutti, tirava di zappa pesante come fosse un fuscello, rovesciava la terra come stesse maneggiando il peso di una cucchiaiata.
Dal riso facile, bofonchiava monosillabi, due figli maschi e una moglie docile dolce, i denti davanti mancavano a tutti, i figli erano negli anni del ricambio, ma le carie erano pronte a prendersi anche i nuovi.
Dai morti a pasqua si trasferiva in Germania, la stagione del caldo in Italia, tirar fuori agli e cipolle, scavare patate, raccogliere pomodori, nocciole, arachidi, granturco, infine vendemmia, vinificazione e partenza per i cantieri di Dusseldorf, Koln, Frankfurt, Stuttgard, Munchen.
Non beveva acqua, “si accumula nelle spalle” diceva, beveva vino, il suo, lo ricavava mettendo assieme aglianica, tingitora e foggiano, ne ricava un vino da 12°, in una giornata di scavo ne beveva una damigiana da cinque litri, negli altri giorni, quelli del lavoro meno faticoso, ne ingurgitava solo un boccione da due.
In quindici anni tirò su la casa e comprò un terreno, da bracciante passò a contadino, il terreno lo coltivava la moglie con l’aiuto dei figli, lui ci andava la domenica e tutte le feste comandate, ci passava all’alba alle sei, prima di andare alla giornata, ci ritornava la sera, quando questa finiva, ne approfittava per innaffiare, che col fresco è la condizione migliore.
Continuò a fare lo stagionale in Germania, il primo figlio studiò, prese il diploma di perito meccanico e trovò posto di operaio specializzato all’Alfa sud, il secondo aveva un ritardo mentale, si fermò alla licenza elementare e si ritrovò nella stessa fabbrica di automobili come manovale generico.
All’inizio dei 70 il terreno fu espropriato per realizzare una scorrimento veloce in mezzo a una vasta area commerciale, lui non si arrese, comprò un altro terreno più lontano dal centro abitato e continuò a correre sulla terra morbida dei raccolti, sulle scale della vendemmia, sulle impalcature dei cantieri, sulla bici mattina e sera, sotto gli alberi di nocciole, sugli alberi di fichi, poi tutto a un tratto si fermò.
Si fermo in un letto di ospedale, un cancro al fegato, uscì e ci ritornò, non era più lui, la pelle si schiarì, stava seduto davanti casa, salutava i passanti con un cenno della testa.
“Aggia furnute e juorne”, rispondeva a chi domandava come stava.
Aveva 55 anni, lo stato risparmiò una pensione.