Sebastiano, Sastiano o’ carruzziere, carrettiere in pensione, prima di trainare materiali aveva un break, ci trasportava le persone nei paesi vicini, una famiglia che andava a un battesimo, o a un matrimonio, oppure a un funerale, o semplicemente a pasqua e a natale quando si portava il canistro ai genitori dell’uno e dell’altra.
La diffusione delle automobili negli anni 50 mise in pensione il break* che ora giaceva sotto una tettoia di lamiere; polvere, piume, cacche di galline e di piccioni incrostavano la pelle dei sedili e il legno dello chassis, sotto si godevano il fresco, o si proteggevano dalle intemperie, due cani, Remo, un fulvo pastore bergamasco, e Jack, un bracco. Remo era il cane di Sastiano e Jack di suo fratello Domenico, Rumminico o cantatore.
Sastiano quando smise di condurre il break fece il carrettiere, col traìno trasportava materiali edili, pozzolana e pietre dalle cave di tufo di Schiava, calce viva e spenta dalle colline di Polvica, rena, blocchi, forati, mattoni, pavimenti di graniglia da una fabbrica di Nola, scardoni di porfido del Vesuvio per le fondamenta e i vespai, lapilli per pavimenti e tetti da Somma Vesuviana. A 65 anni maturò la pensione minima e mise a riposo il traìno di fianco al break.
Domenico era stato ferroviere dello stato. Aveva avuto 6 figli tutti vivi e sposati, tranne l’ultima, fidanzata e prossima al matrimonio.
Sastiano non aveva figli, aveva portato in casa una nipote già quindicenne, li chiamava zii, era rancorosa, scioglieva i capelli dal balcone sulle cugine che passavano.
Rumminico era cacciatore, ogni pomeriggio inforcava la Bianchi, fucile a tracolla, cartucciera alla vita, il cane Jack che lo seguiva dietro o di lato. Cappello in testa, camicia candida stirata, panciotto verde, pantalone di velluto, orologio delle ferrovie nel taschino. Andava alle Fusare e ai Regi Lagni per sparare a storni, tordi e allodole, qualche volta prendeva anche beccacce.
La pensione di Sastiano non era gran che e doveva continuare a lavorare, adesso coltivava un campo non lontano dall’abitazione, al posto dei cavalli aveva due mucche da latte. Fin da ragazzo suonava il mandolino, aveva una buona voce, ma non cantava.
Rumminico era cantatore, il fratello suonava e lui cantava il repertorio napoletano, anche qualche romanza. Sastiano vestiva un frac e il cappello a cilindro, scarpe di vernice nera, Rumminico un moderno vestito grigio con la paglietta da Ciccio Formaggio, prendeva il centro della pedana, apriva le braccia a raccogliere tutta la platea. Sastiano dietro, spostato sulla sinistra, accompagnava l’estro del fratello, per l’occasione era sbarbato e lavato, cosa non proprio usuale, perché in genere aveva barba lunga, le pieghe della pelle nere e i vestiti cosparsi di patacche, pezze e rammendi. Aveva le spalle curve dalla fatica, camminava con lo sguardo sui basoli della strada, si distingueva il cappello nero, dal pelo pettinato e lucido, sembrava or ora uscito dalla bottega.
Da Felice, Cicetto, andava a sbarbarsi il sabato, così per presentarsi da cristiano al signore la domenica. Era completamente calvo, il giallo del cranio sparava sul viso cotto e rubizzo, ma lo si vedeva solo in chiesa, qui, all’entrata, calava il cappello davanti all’onnipotente, poi dopo il segno di riverenza lo poggiava sullo scanno a fianco, e muto seguiva il rito religioso. Come quasi tutti gli anziani non si era avvicinato al mistero del rito secondo in concilio Vaticano II, si alzava e si sedeva con gli altri, ma ne’ canti, ne’ preghiere, tanto meno lo scambio del segno della pace.
Domenico era sempre impeccabile, fusto dritto, sguardo avanti, non superbo, anzi affabile, ossequioso con le signore, elegante nel gesto e nel complimento sempre pronto e ben indirizzato. Andava tutti i giorni a sbarbarsi, non da Cicetto che era barbiere dei cafoni, ma dal barbiere della piazza, tocco di qualità, ambiente signorile, profumi e oli superiori, lamette oltre ai tradizionali rasoi, camici bianchi, pavimento di ceramica, quattro postazioni, tre lavoranti che prima di uscire ti spazzolavano e ti aiutavano a vestire giacca e cappotto.
In chiesa prendeva posto nei primi scanni, rispondeva a tutte le invocazioni del prete con voce ferma e chiara, “Credo in un solo Dio padre onnipotente, generato e non creato, della stessa sostanza del padre! …”.
Sastiano non aveva generato, nessuno che portasse la sua stessa sostanza, ma non ce l’aveva con Dio, e neppure con gli uomini, lui semplicemente non si sentiva degno. Non era circondato da figli premurosi, non gli lavavano e né gli stiravano le camicie, ma non era per il puzzo del corpo che questo neanche sentiva, neppure l’offendeva la sufficienza degli sguardi, e neanche la mancanza di rispetto della nipote che da un po’ di tempo non accudiva la casa e aveva perfino smesso di fare da mangiare per loro, era l’inutilità della sua presenza sulla terra. Cosa lasciava? Il mandolino, la marsina da buffone, le lamiere arrugginite al centro dell’aia, il catafalco nero coperto di sterco del tempo, la casa dal balcone alto, il pezzo di terra, una moglie incattivita a mormorare incomprensibili litanie, Remo dagli occhi coperti dal pelo, pastore che azzanna e non abbaia.
La foto del matrimonio ritrae un uomo in marsina e cilindro, la mano della fede in mostra, nell’altra i guanti grigi, gli occhi lucidi, le labbra in allegra attesa. E’ soddisfatto di avere messo quella fede all’anulare di lei. La ragazza che gli sta dando il braccio ha faccia lappone, sorriso allungato alle gote, capelli fluenti dietro la ghirlanda, neri, come gli occhi che sono oltre il fotografo, a spiare dall’alto delle scale della chiesa gli invitati che stanno lanciando confetti.
Il corpo rigido dalla prima notte di matrimonio mai si sciolse alle carezze, neanche ai pugni e ai calci che seguirono.
Inconfessabile.
Ripudiarla? Era metterlo sulla bocca di tutto il paese, si accordò per dire ai parenti che “Nanninella non può avere bambini”, ci avrebbero pensato loro a distribuire alla gente come stavano le cose.
Ma come stavano le cose?
Nanninella aspettava il nome di Dumminico quel giorno che il padre comunicò del giovane che aveva chiesto la sua mano.
Li aveva visti sotto casa a guardare dentro il portone, sentiti in chiesa sedere dietro al suo banco, si era emozionata al gesto elegante del cappello al suo passaggio, aveva accarezzato la voce aggraziata “prego, dopo di voi signorina” , si era vista signora ad accudire casa senza il lavoro dei campi, i panni infangati, le mani sarchiate, le incrostazioni verdi delle erbe strappate, la polvere che entra dal petto, che sale dalle cosce e tutta ti invade. Sastiano, aveva pronunciato il padre. E’ venuto col fratello.
Nunn‘o voglio
E’ accussì bravo giovane, carrozziere, tiene nu’ bello break, due cavalli, è allero, sona o’ mandolino, che vuo’ chiù da ciorta?
Numme voglio spusà, ìe numme sposo, me faccio monaca.
Ma che stai dicenno? Ma che ‘ai persa a capa? Nun’è struppiato, nu’ ngagaglia, è sano.
Taggia vista allera quanno ‘o verivo.
Nunne o voglio
Nannì, ìe maggia già cumprumisso, vire ch‘aia fa.
Nanninella sposò Sastiano, da casa vedeva Dumminico mattina e sera partire e arrivare con la borsa da ferroviere, lo vide sposarsi, adorare la moglie, fare sei figli, per lei ci fu sempre il tocco al cappello quando saliva e scendeva le scale.
Nanninella non ebbe tempo per il marito, neppure per la casa in cui viveva, passava il tempo a spiare da dietro le persiane, dalle porte socchiuse, spiava la vita che doveva essere la sua. Non ramazzava, non lavava i pavimenti e neppure i panni, non rammendava, appena cucinava. Sastiano imparò a prenderla di brutto, labbra spaccate, pesti, gonfiori, la costrinse a lavorare i campi, a pulire e a cucinare, ma tutto appariva per quello che era, strascinato. E si che l’aveva anche trascinata per i capelli su quel letto, arrivò a tramortirla a mazzate in testa e pugni in faccia, così da non opporre resistenza, ci provò tante volte, ma poi non riusciva a farlo, non gli veniva su, e se succedeva, poi, in mezzo al quelle gambe smorte, si ammosciava.
Nanninella non gli parlò se non per lo stretto necessario, l’amministrazione della casa, del terreno, e per dire che voleva la figlia della sorella a casa sua, quella ragazza li avrebbe aiutati nella vecchiaia.
Gli parlò una sola volta, fu prima di ritirarsi definitivamente in se con l’ictus che la portò alla morte, Perduoname Sastià si nu’n’taggia viste.
Da anni mormorava per strada, altre volte le labbra si muovevano senza emettere suoni, pregava? In effetti sembrava il bisbiglio di un rosario. Gli occhi stretti da miope, il mento un tremito leggero, come per le mani e le ciglia degli occhi, i gesti invece erano pieni di vigoria, anche brutali, di lei si vedevano solo mani e viso, mentre le orecchie, i capelli e il collo erano sempre coperti da uno nero scialle annodato, veste nera, calze di lana nera, zoccoli neri completavano il vestiario. La pelle che si poteva vedere era un fitto reticolo di linee scure, come di un minatore del carbone.
Lavò casa e panni, ma mai se stessa, puzzava, si sentiva quando ti passava vicino, in una camera chiusa doveva essere tremendo, nello stesso letto impossibile. Lei si rendeva sgradevole e inavvicinabile, lui somministrava botte. All’iniziò la spogliò e la lavò, durò qualche anno, ma era solo per salvare il decoro agli occhi dei vicini. Il bisogno sociale e il desiderio di possedere la moglie e di ingravidarla come Dio, comanda col tempo si affievolì fino ad arrendersi definitivamente.
Sastiano comprò un secondo letto a una sola piazza, lo fece sistemare nella loro camera e la mise a dormire lontana da se. Tempo dopo ci riprovò la nipote, prese a lavarla e a vestirla, poi anche lei si arrese.
Nanninella, si chiamava proprio come la zia, più che convinta fu costretta a trasferirsi. Non voleva lasciare la sua casa, lei quarta di cinque figli non poteva neanche immaginarsi sola, insieme a degli zii trasandati, scorbutici e puzzolenti.
Ma che dici, intanto nu’mancà di rispetto, sonn’e zii tuoie, e nun é o vero ca’ puzzano, prese a dire sua madre.
E ancora, che a casa degli zii avrebbe avuto camera tutta sua mentre da loro doveva dormire con le altre due sorelle, che gli zii hanno avviato la pratica di adozione, dunque avrebbe ereditato casa, terra e libretto postale, che avrebbero da subito intestato un libretto postale con i soldi per quando si sarebbe sposata, che le avrebbero regalato un corredo da dodici.
Ma tu o’ vuo’ capì che chesti cose nuie nun te putimma da’? Va’ figlia mia ca’ chesta casa è sempe aperta quanno vuo’ venì. Chesta sarrà sempre ‘a famiglia toie.
Nanninella andò a vivere dagli zii, ebbe tutto quanto fu promesso, trovò solo una sporcizia molto più pesante. Come tutti, lei conosceva lo stato dei tre bassi, ma non delle due camere di sopra.
Si mise di lena a ramazzare e lavare pavimenti, pulire vetri, spolverare mobili, lavare biancheria, indumenti di lavoro e della domenica. Lavò anche la zia, ogni volta una guerra, una volta al mese, “solo una volta al mese a’zì”.
Dopo qualche tempo prese a cantare, lavava panni al lavatoio comune e cantava, sbatteva coperte col battipanni e cantava, balconi aperti a sanare gli ambienti. Finalmente in quella casa fu primavera. E fu proprio durante una primavera che dal balcone vide la prima volta Salvatore, il figlio di Dumminico bello come Tayron Powell.
Poggiava i gomiti all’inferriata, la testa tra le mani sognava sul cielo, sui tetti delle case, nella soffitta della chiesa, nei portoni. Pettinava i biondi capelli con la testa fuori dal balcone, entrava a spiarsi allo specchio, si girava di profilo, doveva comprare un reggiseno con le stecche, di quelli che ti fanno diventare Sofia Loren, la gonna più stretta in vita, e sui fianchi, il rossetto, reggiseno e rossetto. Cominciò a trattenere per se qualche spicciolo quando faceva la spesa, così riuscì a comprare tutto l’armamentario.
Salvatore era in attesa di partire per l’aeronautica militare, e dopo un mese partì, caserma di Guidonia. Nanninella aveva comprato rossetto e reggiseno, e anche un profumo all’acqua di rose, si era fatta cucire un vestito dalla sorella.
Salvatore tornò in licenza ad agosto, poi per natale, poi ancora a maggio. E fu in quel mese mariano che si incontrarono sul lastrico, ci arrivarono dalla propria scaletta di legno, le finestre delle case erano aperte all’aria tiepida, dai giardini saliva l’odore delle rose e dei fiori del paradiso.
Sono fiorite le rose, disse Salvatore disteso a fianco di Nanninella coperta di stelle.
Hai mai volato di notte, tra le stelle?
Si che ho volato.
E sono più grandi?
No, più grandi no, ma più luminose, e molte di più, non finiscono mai, non riesci a contarle.
Dicono che per ogni uomo c’è una stella.
Può essere, anzi, saranno pure di più.
Allora scegliamo le nostre. … , quelle due vicine, si guardano come noi dai balconi.
I Gemelli, io sono nato sotto il segno dei gemelli, ci porterà fortuna.
Il libeccio alzava la veste di chiffon, Nanninella non si oppose al vento e neppure a Salvatore quando la prese. Non lo toccò, non lo guardò, neppure lo baciò, aveva gli occhi al cielo mentre lo riceveva, neppure un attimo li chiuse, neanche quando lui si fermò su di lei affranto, neanche quando riprese a penetrarla che il campanile suonava tre quarti dopo le due, il profumo dei petti d’angelo saliva dai campi e lei volava col suo aviatore.
Ci ritornarono per tutte le notti della settimana di licenza, lui ripartì dandogli appuntamento per l’estate, avrebbe parlato col padre e poi con lo zio.
Ma Salvatore non tornò, neppure da morto tornò, nel mese di giugno, sotto il segno dei gemelli, l’aereo precipitò in mare davanti le coste della Sicilia, non recuperarono neanche i corpi degli avieri.
Nanninella rimase col suo segreto nella pancia, quando le sorelle se ne resero conto fu troppo tardi per andare dalla mammana, la portarono in un orfanotrofio a partorire, lasciò lì il bambino e anche la sua vita.
Ritornò dagli zii, prese a star seduta al balcone, pettinava i biondi capelli e cercava un sorriso nella finestra di fronte.
E stai attenta a dove li fai cadere questi capelli!
E lavali che sono pieni di forfora! Le sorelle di Salvatore vestite a lutto mentre passavano sotto al balcone per salire le scale di casa.
E’ diventata scema come la zia.
Nanninella aveva smesso di pulire casa e se stessa, gli zii non capirono, neanche i vicini, neppure la famiglia di Salvatore volle capire.
La casa riprese a marcire, la pelle a riempirsi di croste, i vestiti di toppe e patacche. Poi, la primavera successiva, Sastiano portò in casa un canarino.
Appese la gabbia alla parete, appena dietro la porta finestra del balcone, così che Nanninella, “la giovane”, potesse ascoltare quel canto di passione per terre lontane.
Lo ascoltava al balcone, con i gomiti poggiati alla ringhiera e la testa tra le mani, riprese a sognare sul quel canto, nel soffitto della chiesa, sotto gli archi delle campane, sul lastrico di sopra. Il canarino capì e mai si fermò fino alla morte, morì una notte di inverno, lo trovarono al mattino rigido e freddo. Fu allora che Nanninella pianse, lungamente pianse.
Sotterrò il canarino, tagliò i lunghi capelli e li vendette, bruciò la veste di chiffon e partì.
Dopo un anno arrivò a casa di Sastiano una lettera dall’Australia, era Nanninella che scriveva di aver trovato un lavoro e che per lei iniziava una nuova vita.
Qualche mese dopo morì Nanninella la vecchia, morì pure Remo il traditore, un camion lo stese sul selciato. Sastiano rimasto solo prese a suonare il mandolino di notte e a dormire di giorno, Dumminico e i suoi figli che abitavano vicino non protestarono mai, anzi le figlie tutti i giorni portavano da mangiare, pranzo e cena, cena e pranzo, una volta a settimana gli lavavano pure i panni.
Poi toccò a Dumminico morire, si congiunse all’amata moglie persa quando ancora era giovane. Sastiano non se ne accorse nemmeno, di notte come sempre suonò il mandolino; quando ci furono le esequie lui dormiva. Un giorno chiese alla nipote Titina che aveva portato la cena: ma Dumminico addò sta che nun ‘o veco chiù?
E’ partito, è andato dal figlio Agostino, a Genova.
E’ quanno torna?
E’ che torna a fa?, si trova così bene dove sta!
Nu’ juorno e chisto aggia partì pure io.
E dove volete andare?
In Australia, chella povera nipota mia po’ ave’ abbisogno, ‘e nu’ tene a nisciuno.
Ma chi ve lo ha detto che sta sola? Si sarà maritata con un bel giovane. E poi l’Australia è grande, Nanninella sta bene e non ha bisogno di voi, nu’ ve preoccupate.
Una notte ci provò, vestì la marsina, calzò le scarpe di vernice, i guanti grigi, il cilindro, il mandolino e si avviò alla stazione, il primo treno passava alle 4,30, non lo aspettò, prese a camminare sui binari, Marigliano, Mariglianella, Brusciano, Castel Cisterna, Pomigliano, troppo lontano l’aeroporto di Napoli, si doveva riposare un poco, si portò sotto un palo, sedette a terra, le spalle poggiate, davanti, dalle colline di Cancello, il chiarore del giorno, era tempo di suonare una nuova canzone.
Lo trovarono sotto il traliccio della linea ferroviaria Vesuviana, tra Pomigliano e Casalnuovo, aveva il mandolino in una mano e il cilindro sulla testa, la camicia pulita e il sorriso sulle labbra, lo stesso che aveva nel ritratto delle nozze.
* (carrozza da trasporto di origine inglese)