tutto è possibile

avevo sbagliato tutto
provavo il mio deserto

Ma cosa stai combinando, disse mia sorella appena entrato a casa, ti pare normale tornare da scuola a quest’ora. Da scuola! Ma ci stai andando a scuola? Io non sono scema, tu puoi imbrogliare loro ma non me. Posai i libri sulla sedia.
– Non sono andato a scuola, non riesco a studiare, non mi va di fare nulla, sono andato in giro, tutto il giorno in giro, per i campi, da solo. Mi buttai su una sedia, mi sentii stanco.
– Se vai avanti così ti bocciano, perdi un anno, forse non ti mandano più a scuola, ci pensi a questo? E tutti i soldi che spendono per te, i libri, l’abbonamento, i vestiti, i soldi per la merenda, e poi quelli per le sigarette, e poi i dischi, il basso elettrico, l’amplificatore, le partiture. E che vai facendo? Ma quante volte l’hai fatto?
– Non so quante volte l’ho fatto ma sono molte, vado in giro per bar, gioco a carte, a biliardo, a pallone, perdo tempo, aspetto che passino le ore per prendere il treno e tornare a casa.
– E le giustificazioni?
– Le falsifico.
– E se papà ti scopre?
– Lo so, potrebbe controllare il libretto, ma lui si fida ancora e non lo fa. Tu non dire nulla, cerco di non farlo più.
– Guarda che papà uno di questi giorni viene a scuola, l’ho sentito, ne stava parlando con mamma.
Presi il secchio del latte, l’acqua e il panno per lavare le mammelle, e mi avviai verso la stalla. Potevo provarci, potevo ancora farcela, potevo puntare ad essere rimandato, ma potevo ancora essere promosso, in fondo c’ero sempre riuscito, dovevo provare, recuperare qualche materia prima che mio padre venisse a parlare coi professori. Lavai le mammelle, le asciugai, cominciai a mungere. Le insufficienze non sono gravi, una parte dei programmi la conosco, devo solo riprendere il ritmo, il gusto di studiare. Sentii il carro arrivare, i comandi alla cavalla li dava Neal, scaricai il secchio di latte.
Mio padre per la prima volta aveva accanto un giovane che volontariamente andava ad aiutarlo nel suo lavoro. Mai fatto una cosa del genere io, solo per ordine ricevuto, e manifestavo tutta la malavoglia, ero irritato, sbuffavo, ero indolente. Mio padre aveva voluto che studiassi, si aspettava da me riconoscenza, riceveva rifiuto del suo mondo e del suo ruolo. Tutto quello che lui sapeva e sapeva fare io non lo apprezzavo, mio padre non aveva nessuno a cui trasmettere il suo sapere.
Passai all’altra mucca.
E adesso ce l’ha, ha trovato Neal arrivato dall’America, se lo tenesse Neal, magari io vado al suo posto in America.
– Hai preso il mio posto questa sera, disse entrando.
– Ho pensato che dopo una giornata in campagna non era piacevole mettersi a mungere.
– Sei andato a scuola?
– No e sono tornato mezzora fa; non sono andato a Napoli, sono andato in giro per la campagna, buffo no? Tu, mio padre e mia madre andate in campagna da una parte ed io da un’altra, non è buffo?
– Si, lo è. Perché non vai in campagna con tuo padre se non vuoi andare a scuola?
– E già. Perché? Semplice, logico, naturale andare con mio padre! Non lo è.
– Sei arrabbiato?
– Si.
– Con me?
– Ma che dici? Tu non centri nulla. Te ne parlo dopo, adesso potrebbe entrare mio padre o mia madre e non voglio farmi sentire.
– Va bene, ne parliamo stasera, disse prendendo il secchio pieno di latte. Lo scaricò nel contenitore di alluminio e andò a farsi la doccia.
Mio zio uscì con la sua borsa per andare al lavoro, mia cugina giocava nel cortile, il fratello piangeva, la madre cercava di farlo addormentare, era notte da un pezzo, le luci del campanile erano accese, la televisione trasmetteva le previsioni del tempo, pioggia in tutta Italia, Neal fischiettava un motivo sconosciuto, mio padre riempiva il boccione di vino nel cellaio, Ringo aspettava di essere liberato della catena, per strada il silenzio della sera, qualche maschio usciva di casa.

Neal era entusiasta dei nostri campi. Sono orti, sono dei giardini, piccoli, ordinati giardini, non un centimetro libero. Il contadino conosce le piantine ad una ad una, le segue giorno dopo giorno, sa cosa succede ad ognuna di loro, capisci, ad ognuna di loro. Da noi i campi sono grandi, vanno per miglia e miglia. Il contadino fa tutti i lavori con le macchine, i campi sono così grandi che a volte i trattamenti li fa con gli aerei! Alla fine raccoglie, sempre con le macchine. Non calpesta, non misura il terreno con i suoi piedi, non tocca con mano i semi, le piante, i frutti. La terra è lontana, quasi sconosciuta, qui si può amare il lavoro di contadino.
– Hai trovato del buono nei nostri campi? Ma lo sai che qui i contadini sono tutti poveri? Bisogna fare i conti con il raccolto, con i prezzi dei prodotti, è difficile, ultimamente ancora di più. Sette o otto anni fa le patate non si riuscivano a vendere, ci fu una rivolta di piazza, bruciarono il municipio, saccheggiarono il mercato, centinaia e centinaia di arresti, tutti avevano almeno un parente, un amico arrestato. Tutto quel sacrificio fu inutile, a rivolta spenta molti non riuscirono a tirare avanti, emigrarono in Germania, Svizzera, Milano, Torino ed altre città del nord. Le industrie andavano bene, avevano guadagnato dal MEC, solo che le industrie stavano al nord e non al sud. Al mio paese la generazione di mio padre è quasi tutta contadina, della mia classe delle elementari solo due sono nei campi a lavorare, e non è detto che ci restino.
– E’ triste. Basta poco, molto poco per vivere se hai qualcosa dentro. Nessuno pensa più ad avere qualcosa dentro, tutti corrono ad avere qualcosa fuori, automobili, case, vestiti, e più hanno e più hanno bisogno. Cosa manca a tuo padre? Fa un lavoro suo, fa crescere le piante, le porta a fare frutti, gli piace il lavoro che fa, tutto questo è bello.
– Cosa manca? Secondo me tu parli così perché hai tutto. Chi ha tutto può fare discorsi come i tuoi, ma chi non ha non può. Tu dici che non serve, ma tu lo puoi dire, io no. Io odio il lavoro dei campi, tu lo ami. Per me fare il contadino vuol dire privazioni, sacrifici, rinuncia alla vita, per te è… , è…, non ho capito bene cos’è. Ma che il contadino può girare il mondo? Tutti i giorni lì, tra le patate, i pomodori, il granturco. Molti contadini qui sono stati fuori solo per fare il militare, e la guerra. Non hanno il tempo ma soprattutto non hanno moneta. Tu domani stai da un’altra parte ma loro rimangono qui, capisci?
– Se stai bene non devi andare da nessun altra parte, stai bene e basta. Se ti manca qualcosa allora vai in giro.
– E tu pensi che qui la gente ha fatto questa scelta? Può fare questa scelta? Senza conoscere le lingue, senza avere cultura. Qui si parte, ma per fare il migrante, che è un’altra cosa se permetti. Qui non sanno neanche che vuol dire se stesso, la domanda non si pone. E’ tutto una linea retta, lavoro-perché-ho-bisogno-di-soldi-per-vivere, punto.
– Non so. Ho girato molto a cercare, ho trovato qualcosa, questo lavoro per esempio è un buon lavoro, ne ho provati tanti, te lo assicuro, si può stare bene. Se a te non sta bene sei tu che devi partire, sei tu che devi cercare.
– Tutta la giornata ho pensato a quello che dici. Mio padre è contento di te, per tutto quello che hai detto è contento. Io non sopporto la campagna e tu l’ami, tu potevi non andare e sei andato, lui ha trovato in te quello che io gli nego, mio padre ha una persona che gli fa sentire che il suo lavoro ha ancora un senso, che il suo mondo non è tutto da buttare, addirittura che dovrebbe essere preservato, rivalutato. Con te lui può trasmettere il suo mondo a chi resta. Ma io non resto, qui non resta nessuno, ai giovani la campagna fa schifo. Al massimo ci è indifferente. I contadini sono gli ultimi, anzi i penultimi, ultimi sono i braccianti, ma non c’è tanta differenza qui, perché i contadini sono contadini poveri, e poi sempre cafoni sono. Arrivi tu e dici che invece è bello.
Pose un braccio sulle mie spalle.
– Io ho capito, anch’io ho capito.
Il mento mi tremava nel buio. Procedemmo in silenzio fino alla casa di Rino.
C’erano tutti. Neal prese la chitarra a dodici corde, accordò, suonava senza peltro, sfiorava le corde tese e compatte dello strumento dal suono piuttosto metallico.
Parlò di storie di gente. Musica della grande crisi alla fine degli anni venti e durante gli anni trenta. Folksinger, bums, hoboes. Woody Guthrie: Pastures of Plenty, la dura vita di chi gira e lavora per i campi. Musica semplice ed orecchiabile, lui cantava con facilità. Bob Dylan, ha preso da Woody Guthrie, fa ballate come le sue, qualche anno fa girava con una chitarra come Guthrie, ora è ricco e non lo fa più. Woody rimase povero, altri fanno soldi con le sue canzoni. “Pretty boy Foyd”, una storia di poveri derubati dagli strozzini, dice che quelli delle immobiliari sono peggio dei rapinatori con la pistola, perché quelli che rapinano con la pistola non cacciano mai di casa una famiglia.
Bob Dylan ha appreso da loro, ha appreso anche dalla musica nera, dal blues. Anche il blues è semplice, due, tre accordi e fai il blues, ma il blues è più interessante, è più libero, è più, ….. più vivo, è più adatto a cantare il malessere della città di oggi. Bob Dylan prende dal blues e dalla country music, ma poi è approdato al rock, e non è per niente male anche quando fa rock. Ci sono molti neri bravissimi ma sono neri e non hanno il successo dei bianchi, i bianchi li copiano, rubano loro la musica. Elvis Presley è diventato un mito, era bravo ma erano bravi anche Billy Haley, l’inventore del rock’ n’ roll, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Fat Domino, Little Richard, e tanti altri, il mito però poteva essere solo bianco. Dylan dice di essere un menestrello, lui fa poesia, canta poesia. Il testo è fondamentale, all’inizio era tutto, oggi lui si è molto arricchito musicalmente, avete un coso per reggere l’armonica?
Non ne avevamo.
– Domani ne farò uno con il filo di ferro. Dylan usava molto l’armonica, ancora adesso la usa, anche questo viene dalla musica nera, dal blues, i neri sono maestri nell’uso di chitarra e armonica.
– Hai detto che non è difficile fare il blues, ma come si suona il blues? Disse Peppe
– E facile come giro armonico, ma il blues bisogna sentirlo, devi avere qualcosa dentro da dire, i bluesman sono poeti improvvisatori, loro raccontano, inventano storie che cantano, a volte sono più di uno e si passano le storie. Nell’ultimo LP di Dylan, Highway 61 revisited, ci sono molti blues. E cantò “It take a lot to lough, it take a train to cry”, “Ballad of a thin man”, “Like a rolling stones”, i pezzi con l’armonica li accennò con la voce, parlò dei testi delle canzoni, disse che lui non aveva una voce adatta, ci voleva sporca, fastidiosa come quella di Dylan, perché la voce di Dylan “sfoltisce”, vanno via tutti quelli che non devono ascoltare le sue canzoni.
Restammo in silenzio davanti a quell’oggetto sconosciuto, noi conoscevamo “Blowin’ in the wind” , “Farewell Angelina”, “Mister tamburine man”, soprattutto noi conoscevamo poco i testi. A me non entusiasmava, certo capire dove e come nasceva quella musica, capire i testi delle storie era tutta un’altra cosa. Una musica per vedere dietro la facciata bella del mondo, dietro i buoni sentimenti, non musica furba, confezionata per portarti fuori dal mondo, fu questa la lezione di Neal.
Cantò poi una lunga ballata “Desolation row” e disse che poteva bastare, si fece una sigaretta delle sue e ci offrì di fumarla insieme. Cominciai io, sembravamo ritornati alle scuole medie, quando nei bagni ci passavamo il mozzicone in tre, quattro, cinque, tutti quelli che venivano e chiedevano di fare un tiro. Lui divenne loquace, parlò di continuo, raccontò del college, del corso di musica, lì aveva appreso il blues e la country music. Lì aveva suonato il piano in un gruppo che faceva blues elettrico, avevano composto anche dei blues.
Era stato ai concerti di Dylan, dei Who, dei Beatles, era stato all’Apollo Theater di Harlem, aveva ascoltato naturalmente i gruppi della west coast: Jefferson Airplaine, Grateful Dead, Beach Boys, e anche quelli del cosiddetto San Francisco Sound. A New York aveva assistito a uno spettacolo dei Welvet Underground and Nico: The Exploding Plastic Inevitable. Amava molto Lenny Tristano e il cool jazz, Lee Koniz, Stan Getz, gli piaceva il sax di Sonny Rollins e anche il John Coltrane delle ballate e dei blues. Aveva assistito a diverse session di free jazz ma pur condividendo le ragioni ideologiche e l’impostazione teorica, non riusciva a partecipare emozionalmente a quella musica. Una musica a noi del tutto sconosciuta, neanche Rino conosceva quei musicisti e quel tipo di jazz.
La sigaretta era finita, Lorenzo disse che non aveva sentito nessuna differenza a parte l’aroma, la stessa cosa gli altri. Neal ne preparò un’altra e ricominciò il giro, i tiri questa volta furono più profondi, Neal disse che era omosessuale.
– Che vuoi dire?
– Culattone, frocio, finocchio
Rimanemmo su di lui in silenzio.
– Scusa, perché ci dici questo?, domandò Rino
– Mi serve un’informazione, sapete dove si ritrovano gli omosessuali da queste parti?
– Non ho mai sentito dire che c’è un posto degli omosessuali. Ci sono posti per le puttane, ma per gli omosessuali proprio no. Peppe.
– Non mi riferivo a cose del genere. Sono sicuro che anche a Napoli c’è. Conoscete un omosessuale? lui sicuramente sa dov’è.
– Io ne conosco uno. Viene ogni tanto dove ci siamo incontrati, tra i capannoni distrutti. Posso chiedere a lui, so anche dove lavora, posso anche portarti lì. Il lunedì viene sempre al bar, oppure giù ai capannoni distrutti.
– Fa le marchette?
– Non lo so, può darsi, non l’ho mai capito. Penso che con quelli che gli piacciono non si fa pagare. Io te lo posso far conoscere. Veramente c’è anche un compagno di classe che …, però non credo che lui conosca o frequenti posti del genere.
– Non è che vogliamo avere i nostri posti, sono gli altri che ci rifiutano, che ci rendono la vita difficile, anche se adesso è più facile. Molti prima non riconoscevano questa diversità, oppure si disperavano, la nascondevano. Ancora è così tra gli adulti, non tra i giovani. Tra i giovani comincia liberamente a mostrarsi. E però ancora oggi si viene espulsi dal college se ti scoprono.
– Ma tu come hai scoperto di essere così, cioè, così, si nasce? Lorenzo
– Non lo so, lo scoprii, io l’ho scoperto tre anni fa, avevo una ragazza, andavo con le ragazze, ho fatto l’amore con le ragazze. Poi un giorno ho conosciuto Albert, lui aveva cinquanta anni, era bello parlare con lui, era molto dolce e sensibile, una persona eccezionale. Albert era venuto a tenere delle conferenze al campus sulla cultura orientale. E’ stato al campus una settimana, io l’ho visto tutti i giorni, mi ha dato dei libri, mi ha parlato dell’India, del Nepal, del Giappone, dello zen, yoga, la meditazione. Un giorno mi disse se volevo fare un rilassamento, lo feci, passammo un pomeriggio molto bello, poche parole, non c’era bisogno di parlare, comunicavamo, eravamo vicini nella distanza. Mi lasciò l’indirizzo, un giorno d’estate andai a trovarlo. Mi presentò l’uomo con cui viveva, così seppi che lui era omosessuale. Era bello come stavano insieme, quando andai via lui mi abbracciò. Pensai molto a quell’abbraccio, desideravo che durasse ancora, dentro di me una forza mi diceva di provare ancora l’abbraccio di quell’uomo. Gli telefonai, mi disse che mi aspettava, rimasi sorpreso. Gli dissi dell’abbraccio. Ci incontrammo a NY, lui andava lì per un contratto con una casa editrice. Pensavo a lui, sempre di più, più che alla mia ragazza. Era un innammoramento. Andai avanti così per quasi un anno, poi mi disse che non poteva più vedermi, che aveva problemi con l’uomo con cui viveva, che aveva scelto, e aveva scelto di non vedermi più. “Tu sei giovane, tutta la vita davanti, io non più. I giovani cambiano con facilità, io appartengo ad un’altra generazione, preferisco difendere quello che ho”, mi disse così.
Soffrii molto, dopo un po’ lasciai la mia ragazza, ero confuso. Conobbi un altro mondo, fatto di locali dove gli omosessuali si incontrano, si frequentano, fanno liberamente l’amore. Non mi sono più innamorato, a volte penso a lui, ho paura di non innamorarmi più di un altro uomo e di non essere capace di stare con una donna, ho paura di rimanere in mezzo al guado e senza amore.

Provavo il mio deserto, sotto quel deserto avevo cacciato a forza il mondo della mia famiglia, mi giravo intorno in cerca di appigli di vita, aspettavo che qualcosa succedesse fuori/dentro me. Incontravo statue, oggetti inanimati, suoni e silenzi, non la vita.
La vita era sicuramente Sara, ma non osavo, avrei potuto dirle prendimi per mano, portami con te? No, aspettavo.
Alfonso il pazzo cominciò a camminare per le strade verso i tredici anni e non si fermò più, cammina notte e giorno, non ha importanza dove cammina, né dove va, è importante camminare, solo così può rimanere in vita. Sarei diventato così? Un camminatore? Camminavo moltissimo col pensiero e potevo tenere fermo il corpo, che rimaneva indolente, non sopportava i sobbalzi, le interruzioni, tutto era inopportuno.
Indicai a Neal il barbiere dove lavorava Roberto poi andai verso scuola, parlai con Edoardo, all’uscita saremmo andati insieme alla stazione. Neal aveva lavorato sodo in campagna, questo era il primo giorno libero. Aveva costruito un porta armonica con un filo di ferro zincato che usavamo per stendere i panni sul terrazzo. Aveva preso l’acustica a sei corde e la domenica aveva provato a suonare, country, blues, ballate lunghissime, lo sentivo dalla mia camera, cominciavo a entrare in questa musica, la capivo di più, mi veniva voglia di suonarla, e anche di cantarla, cantare il blues come il mio amico americano. Stavo provando a studiare, provavo a recuperare qualche disciplina, erano quattro giorni che andavo a scuola, ero stato interrogato in Italiano e Storia, avevo preso la sufficienza, ma il problema era Matematica. E anche qualche materia tecnica. Studiai Matematica, chiesi di essere interrogato, il professore rispose che decideva lui quando, lui, faccia incisa senza incertezze, non si accontentava di soluzioni di integrali.
Quello di costruzioni ed impianti aveva corpo, collo, guance e bocca di porco, una trippa che straripava sopra i pantaloni, una sigaretta pendeva dalle labbra, a volte bofonchiava una domanda senza toglierla, qualche volta la sigaretta cadeva, la raccoglieva e continuava. La classe era piena di cenere e mozziconi. Fumavano tutti, ma proprio tutti i professori, anche quello di religione, ma solo quello di Impianti e Costruzioni mi faceva schifo. La disciplina Impianti Elettrici la conoscevo ma lui mi crepava sempre sulle Costruzioni: le spire di un rotore, di uno statore, le lamelle di un trasformatore mi facevano vomitare: che c’entravo io con quegli oggetti sottoposti ai flussi magnetici, perché dovevo conoscerli?
Avevo sbagliato scuola, non avevo avuto il coraggio di cambiare, me ne ero accorto l’anno precedente, al terzo, avevo tenuto tutto per me, come potevo dire dopo tre anni: ho sbagliato tutto, ricomincio da capo col liceo. Anche quella mattinata scolastica passò, alla stazione ritrovai Neal, gli presentai Edoardo e me ne andai a prendere il treno. A casa studiai Matematica, con ostinazione, senza voglia, senza capire, solo stanco automatismo. Il giorno dopo, era sabato, fui interrogato proprio in Matematica. “Si studia tutti i giorni. Pensa di venire una settimana a scuola e recuperare tre mesi di assenze?“. Dopo un buon inizio mi fece cadere su un’integrale, “al secondo trimestre le darò quattro allo scritto e cinque all’orale. Per incoraggiarla” disse. Di tutta la vicenda scolastica 1966/67 mi rimase il peso delle inutilità. Quella sera ritornava Neal a suonare, per strada mi disse che lunedì mattina sarebbe uscito con Roberto, e che Edoardo lo aveva invitato ad una festa a Pomigliano per domenica sera, l’invito era anche per me.
Neal portò la chitarra acustica con il porta armonica e suonò blues. B.B. King, Buddy Guy, Jhon Lee Hooker, Muddy Mississipì Waters, Lightnin’ Hopkins, Alla fine provammo ad accompagnarlo, ci disse come tenere la base ritmica, e di stare attenti a come lui lavorava con la chitarra solista e con la voce.
Finalmente un musicista con una buona esperienza, e musica nuova. Non era difficile accompagnarlo, era difficile diventare blues, tutti avevano i compitini per le prove successive, giri armonici, ritmiche, sviluppi di assoli. Rino gli propose di suonare con noi finché rimaneva al paese, meglio, gli chiese di insegnarci a suonare la musica che lui conosceva, di darci i testi, di provare anche a tradurli per cantarli in italiano. Accettò.
Avevamo una guida e la possibilità di fare un salto di qualità oltre che un salto nel tempo di almeno dieci anni, entrare finalmente nella cronaca del mondo. Passai la mattinata della domenica a suonare, Neal leggeva nella sua camera, poi venne a dirmi che lui sapeva come fare a imparare a cantare.
– Anch’io che sono stonato come una campana?
– E’ un problema di esercitazione, di ascolto e di ripetizione dei suoni, tu puoi cantare, devi solo esercitarti molto, tu puoi sentire la differenza dei suoni in modo sempre più preciso, più li senti più sarai capace di ripeterli.
Prese la chitarra e cominciò a fare note e ripeterle con la voce, mi disse che quando il suono era lo stesso si sentiva come una vibrazione, quella che io dovevo scoprire.
– Fai note con la chitarra e cantale, capirai quando questo avviene.
Provai per ore e non ci riuscii.
La sera andammo a Pomigliano, alla festa di Edoardo.