carmine

Lo incontrò che stava al tavolo al centro della stanza. Era lì per convincere il padre, entrò dalla porta che dava sul cortile proprio mentre gli stava dicendo, Vincenzo devi costituirti, se lo fai puoi prendere solo 5 anni, se ti prende la polizia ti danno il doppio.
Tornava da scuola, grembiule nero, fiocco tricolore, cartella in una mano, capelli neri lisci che calano sulla fronte.
– E lui?
– Ciao Carmine, io sono Ciro. Tu non ti ricordi di me, ma io ti ho battezzato.
Carmine si siede al tavolo e poggia la cartella per terra
– Ti piace andare a scuola?
– No
– Perché non ti piace?
– Il maestro mi mette in ginocchio sul granturco, i compagni mi sfottono.
– Ma ti piace studiare?
– No
– E se non ti piace andare a scuola, cosa vuoi fare?
– Voglio andare sugli aeroplani.
– Vuoi fare il pilota degli aerei?
– Si.
– E allora devi studiare tanto, senza studio non si diventa piloti.
– Mi dici come faccio? Carmine non deve andare in un orfanotrofio.
– A lui ci penso io. Non ci andrà, lo tengo con me, lo cura Angelina. Allo studio ci penso io. Quando esci torna con te.
Carmine ascolta a testa bassa.
– Hai sentito, da domani vai a casa di don Ciro.
Carmine non alza la testa.
– Devo stare via un po’ di tempo.
– Carmine al paese dove ho la parrocchia ci sono tanti ragazzi simpatici, ti troverai bene, c’è spazio per giocare.
Carmine non risponde, rimane con la testa abbassata.
– Che classe frequenti?
Silenzio.
– Rispondi a don Ciro. Quando torno ti vengo a prendere, vedrai non starò via per molto tempo.
– Portami con te.
– Non posso e qui non puoi stare da solo.
– Perché?
– Dove vado i bambini non possono venire.
– Non sono un bambino.
– E neanche i ragazzi possono.
– E dove vai?
– Quando torno te lo dico.
– Torni prima di natale?
– No. Adesso prepariamo le cose che devi portare via.
Entrarono in una valigia, compresi giocattoli, libri e quaderni. Fuori l’uscio di casa Ciro salutò l’amico: ricordati che senza di te sta male, pensa a come uscire prima che puoi, se stai via troppo lo ritrovi adulto e non rimarrà gran che da fare.
Per tutto il viaggio Carmine guardò lo scorrere del ciglio della strada, Ciro sfogliava l’elenco delle cose da fare. Silenzio nel vano della macchina e vortici di rumori nella testa.
Arrivarono alla canonica per l’ora di pranzo, Angelina aveva cotto fagioli con le cotiche. Ciro le parlò di Carmine, delle cure di cui aveva bisogno, le chiese di capire cosa piaceva al ragazzo, se necessario doveva fare due cucine diverse.
Mentre Angelina integrava il pranzo con pasta al sugo e bistecca in padella, Ciro portò Carmine a conoscere quella che sarebbe diventata la sua camera. “Dopo pranzo Angelina la sistemerà, nei prossimi giorni la facciamo più bella, tu dicci cosa non ti piace e cosa invece vuoi, così diventa proprio la camera tua”.
Carmine non toccò cibo. Ciro uscì per un giro di visite agli anziani e ai malati, al ritornò trovò Angelina seduta in cucina a pelare patate, “Non ha mangiato nulla, ho chiesto se voleva dei biscotti, pane e marmellata, del the, altro. Non risponde. Si è accucciato sul letto e lì è rimasto”.
Ciro lo trovò con la faccia girata verso il muro, si avvicinò, aveva gli occhi chiusi. Prese una sedia e sedette a lato del letto. Fuori il buio avanzava, la camera in penombra, il bambino e il giovane prete rimasero immobili, l’uno a cancellare la realtà in cui era precipitato, l’altro a entrare nel tempo del malato.
Arrivò Angelina per dire che la tavola era pronta per la cena. Ciro chiamò Carmine, non rispose, si alzò, con gentilezza e fermezza girò il corpo del ragazzo, che rimase ad occhi chiusi. Sedette ancora al lato del letto.
– So che non dormi e che mi stai ascoltando. Immagino che sei arrabbiato con tutto il mondo, hai ragione, io sono disposto a rispondere con sincerità a tutto quello che vuoi sapere, aiutami a capire cosa ti fa star bene. Di una cosa sono certo, e puoi star tranquillo che è come io ti dico: tutto il male che senti adesso può sparire, devi solo cominciare qualcosa, dire una parola, tossire, fischiare, urlare, scalciare sul letto, puoi fare tutto quello che vuoi, tutto quello che vuoi.
Silenzio, attesa, niente, ritornò Angelina, il brodo è a tavola, si raffredda. Ciro si alzò per avviarsi per la sala da pranzo, sull’antro della porta sentì un rutto, si fermò un attimo e proseguì, un altro, si fermò nel corridoio, un altro ancora, tornò indietro, silenzio, si avvicinò al letto, con una mano spinse Carmine sulla spalla, il ragazzo scalciò sul letto, il prete diede ancora un colpo alla spalla, il ragazzo voltò le gambe e prese a scalciare il ventre dell’adulto, una gragnola di calci e pugni. Riuscì ad afferrarlo, lo strinse forte al petto, lo tenne finché il ragazzo non esaurì tutte le energie e si spense.
– Non aver paura, ti proteggerò, te lo prometto, tienilo a mente, puoi contare sempre su di me.
– Voglio mio padre.
– Lo sai che non posso.
– E’ andato in prigione?
– Si.
– Perché?
– Ha sbagliato.
– E cosa ha fatto?
– Ha frequentato uomini cattivi e con loro ha fatto del male ad altre persone.
– E tu chi sei?
– Sono un suo amico, quando ero ragazzo come te abitavo vicino casa tua. Io e Vincenzo siamo cresciuti assieme, stessa scuola, stessa classe fino alla quinta elementare, lui proseguì all’avviamento ed io le medie, giocavamo a pollone nella stessa squadra nel campo dell’Arenella, alle feste assieme, persino a corteggiare le ragazze ci andavamo in coppia. I tuoi nonni vendevano le pizze davanti al portone del cortile. C’era un chiosco, li stendevano la pasta delle pizze, mettevano il condimento, poi le infornavano in un piccolo forno mobile, a carbonella. Io aiutavo Vincenzo a portare le pizze a casa delle persone, ci guadagnavamo le mance per andare al cinema.
– E poi?
– Poi la guerra arrivò anche a Napoli, i bombardamenti rasero al suolo la zona porto e la zona industriale, morti e feriti a migliaia, tanta gente rimase senza casa, senza lavoro, si faceva la fame, anche mio padre rimase senza lavoro, così, per continuare il liceo classico mi portarono in seminario, dove si studia per diventare preti. Era il 1943 ed avevo sedici anni, non dovevo fare il prete, era solo un modo per studiare gratuitamente. E invece ho scelto di rimanere anche dopo la licenza liceale, ora eccomi qua a fare il parroco di questo piccolo paese.
– E mio padre?
– La famiglia di tuo padre rimase sotto le macerie di un bombardamento che colpì via Duca di San Donato dove loro abitavano. Vincenzo si salvò solo perché non stava insieme a loro quel giorno. Rimasto solo fu preso dallo zio Roberto, il fratello della madre, nonno Roberto faceva anche lui il pizzaiolo, ma a quei tempi non si trovava la farina, niente pizze, ogni tanto lavorava come addetto di fatica per i soldati americani. Tuo padre lavorava come apprendista in un officina. Gli piacevamo molto le auto. Apprendeva rapidamente, sapeva smontare un motore e rimontarlo, pezzo per pezzo. Con gli anni imparò a modificarli per renderli più potenti, con i risparmi e con l’aiuto del padrone dell’officina preparò una macchina per partecipare alle gare su strada. Dalla preparazione della macchina passò alla guida. Noi ci incontravamo quando tornavo a casa per le vacanze. Mi ricordo che andai a vederlo nella sua prima gara, era la fine della primavera del 1946, era appena nata la Repubblica Italiana. Andava forte, si piazzò quinto. Già nell’autunno di quell’anno cominciò a vincere. Ogni volta che tornavo a casa la mensola dei trofei conteneva nuove coppe. Ora però, se vuoi sapere il seguito devi venire a tavola. Facciamo un patto: se mangi tutto io ti finisco di raccontare. Carmine annuì. Ciro lo prese in braccio e lo portò per il corridoio nel bagno, lavarono le mani e andarono a tavola.
Trovarono Angelina seduta a braccia conserte, “Finalmente!”.
Versò il brodo dalla zuppiera, il prete e la donna fecero in segno della croce, il prete benedisse il cibo e la cena iniziò.
Brodo, bollito e patate, per finire ciambelle all’anice.
Carmine mangiò tutto, poi chiese a Ciro di continuare.
– Le promesse si mantengono! Allora, Vincenzo era bravo e vinceva tanti trofei, con le vittorie cominciarono ad arrivare richieste di preparare altre automobili per altri piloti, anche per scuderie diverse, questo voleva dire anche guadagnare bene. Durante una corsa in Sicilia conobbe tua madre, sei mesi dopo la sposò, un anno dopo il matrimonio nascesti tu, che adesso hai? Quanti anni hai?
– Nove.
– Ah sai contare! Ti ho battezzato, il mio primo battesimo. Eri piccolo così, entravi in questa zuppiera.
– E mia madre?
– Maria. Maria aveva diciannove anni quando sei nato, era di Catania, tuo padre l’aveva conosciuta durante una gara alle pendici dell’Etna. Te la ricordi tua madre?
– No
– Era bella tua madre, ti abbracciava, ti stringeva, ti portava sempre con se. Maria e Minù. Ti chiamava Minù.
-Minù?
– Si, per lei eri Minù.
– E cosa faceva mia madre?
– Quello che fanno tutte le madri, si occupate di te. Aveva pure ripreso a studiare, si era iscritta all’università, ma stava sempre con te. Ti dava da mangiare, ti puliva, ti cullava per addormentarti, ti prendeva in braccio se ti faceva male la pancia. Quando non ti addormentavi ti metteva nel passeggino e andava avanti e indietro nel vicolo.
– E poi?
– E poi, e poi! Un po’ alla volta. Che ti racconto gli altri giorni? Adesso prepariamo la stanza, vai a letto. Domani ti porto alla nuova scuola. Il maestro è una brava persona, vedrai, ti troverai bene.
– Ma io non ho sonno.
– Ho delle storie molto belle, ci sono disegni colorati, vieni te le faccio vedere, scegline una e leggila.
– Ma non mi va di leggere.
– Te la leggo io?
– Boh, e leggila.
– Allora scegliamo, I Viaggi di Gulliver, Ventimila Leghe Sotto i Mari, Il Giro della Terra in Ottanta Giorni, Il Piccolo Principe, Alice nel Paese delle meraviglie, Il Mago di Oz ….
– Non so.
– Hai detto che vuoi diventare pilota di aerei?
– Si
– Allora prendiamo Il Piccolo Principe. Ora vai al bagno, fai la pipì, prendi lo spazzolino e ti lavi i denti, ti metti il pigiama e vieni a letto, io ti leggo.
– Ma io non ce l’ho lo spazzolino.
– Te ne do uno, anche il dentifricio e ti insegno come si fa, però tu vai in camera e ti metti il pigiama, Angelina lo ha messo sopra al letto.
Ciro insegnò a Carmine l’igiene orale, dopo, a letto, iniziò la lettura. ….
… Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato “Storie Vissute della Natura”, vidi un magnifico disegno.
Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. ….
Il ragazzo si addormentò al secondo capitolo.
L’inserimento nella quarta classe elementare fu facile, la curiosità e la disponibilità ad accogliere chi veniva dalla città fece il resto, Mimù si trovò al centro dell’attenzione per molto tempo, il che procurò amici, affetto, inviti, frequentazioni delle famiglie per bene del paese.
Si appassionò alla lettura, passava interi pomeriggi nella biblioteca, ben presto finirono i libri per ragazzi, Ciro ne procurò altri, finirono anche quelli, cominciò con quelli degli adulti.
Pensava alla madre, ogni giorni inventava storie di incontri, casuali, cercati, organizzati, ogni giorno la inseriva in contesti diversi, povera e sola, ricca e mondana, sposata con altri figli. Il padre l’aveva messo da parte, quando Ciro gli proposte di andare a trovarlo Mimù con la testa fece cenno di si ma la proposta del prete lo inquietò, per la prima volta di notte si presentò da Ciro e si infilò nel suo letto.
– Non riesco a dormire, ci sono degli strani rumori. C’era uno che cercava di aprire la porta di casa per entrare, la porta stava per cadere ed io urlavo, urlavo e nessuno mi sentiva.
– Non ti preoccupare, nessuno entrerà in questa casa. Cerca di dormire adesso. Si girò sul fianco opposto, si raggomitolò sotto le coperte, una mano fuori.
– Mia madre è morta?
– No che non è morta.
– E allora perché non mi ha mai cercato?
– Forse non ha potuto.
– E perché non la posso vedere?
– Nessuno sa dove si trova tua madre, forse in America, forse in Inghilterra, Francia, chissà dove, tuo padre non lo ha mai saputo.
– Se mi voleva bene perché mi ha lasciato?
– Maria proveniva da una famiglia importante di Catania, il padre non aveva mai dato il consenso per il matrimonio con Vincenzo, tuo padre un giorno la prese e la portò a Napoli, dove un mese dopo la sposò. Lei riprese gli studi universitari mentre Vincenzo era sempre in giro per le gare, arrivarono i primi problemi, col tempo peggiorarono per la vita sempre più disordinata di tuo padre. Maria tornò a Catania, Vincenzo cercò di riparare, andò a Catania più volte, senza mai poterla incontrare. Cercò di sapere dove si trovava, persone fidate riferirono che era partita ma nessuno seppe dire per dove. Tuo padre era convinto che la tenessero nascosta, cercò ancora ma invano. Non partecipò più alle corse, la mattina non andava a lavorare, i clienti protestavano, dopo un anno il vecchio proprietario che intanto lo aveva preso come socio, sciolse la società Officina Macchine Assetto da Corsa. I clienti volevano solo auto preparate da Vincenzo ma tuo padre aveva perso la testa. Senza lavoro nel giro di tre quattro anni finirono anche i soldi messi da parte, si fecero avanti usurai per il prestito di denaro, Vincenzo se ne servì ma non riuscì a mantenere gli impegni di restituzione, così quelli gli imposero la partecipazione a una rapina, tuo padre doveva stare alla guida di un’auto da lui stesso preparata. E’ gente cattiva, se non fai quello che ordinano ti uccidono, durante la rapina gli impiegati riuscirono a suonare l’allarme, la polizia arrivò, ci fu una sparatoria, uno dei rapinatori cadde ferito, gli altri due entrarono in macchina, con tuo padre alla guida per la polizia non ci fu nulla da fare; ma non servì, perché con il ferito lasciato per strada era solo questione di giorni e sarebbero arrivati anche a lui. Quel giorno, a casa tua, io stavo convincendo tuo padre a costituirsi, così poteva contare su una riduzione della pena.
– Non voglio andare al carcere. Io non ci voglio andare.
– Tuo padre capirà perché non sei andato a trovarlo, anzi, lui non voleva che tu andassi, sono stato io a impormi. Se vuoi gli dico che ho cambiato idea, che mi sono convinto fosse meglio aspettare.
– La prossima volta ci vado.
Si addormentò.
Non ci andò mai. Quando Vincenzo uscì di prigione emigrò in Venezuela, prima però scrisse una lettera per Carmine, l’affidò a Ciro raccomandagli di consegnarla quando avrebbe compiuto 18 anni.
Carmine dopo le medie frequentò il classico, che superò con relativa facilità, si licenziò con una buona media. Tornò a casa non troppo soddisfatto, si aspettava la media dell’otto, ebbe quasi mezzo punto in meno. Lo aspettava Ciro con una lettera in mano.
“Te la dovevo consegnare a diciotto anni, un po’ di mesi fa, ho pensato che il ritardo non fosse una cosa grave, mentre crearti dei turbamenti alla fine del ciclo di studi mi sembrava sbagliato. E’ di tuo padre, non so cosa ti abbia scritto, me la consegnò il giorno prima di partire per il Venezuela. Come tu sai non ho ricevuto più notizie da tuo padre da quel giorno.
Qualsiasi cosa ci sia in quella lettera, sono sicuro che al centro dell’agire di tuo padre, e del mio, c’è sempre stato il tuo bene, e la buona fede. Tuo padre non fu attento alle sue responsabilità nei primi anni della tua vita, ma dopo capì gli errori commessi, partì perché convinto che questo ti permetteva di vivere con maggiore serenità”.
Prese la lettera dalle mani del prete e se ne andò in camera sua.
Vi rimase tutto il pomeriggio, al ritorno dalla benedizione del vespero, Ciro lo trovò ancora lì, bussò.
– Entra
– Il prete sedette sull’orlo del letto, come aveva fatto sempre dalla sera che Carmine arrivò nella sua vita.
– Allora?
– Tu sai cosa aveva scritto
– No.
– Leggila.

Caro figlio,
ti scrivo prima di partire per il Venezuela. Ho capito, fin da quando ero in carcere, che il dolore che ti ho dato ti impedisce di incontrarmi, per questo e solo per questo, nonostante lo desideri più di ogni altra cosa al mondo, non ti vedrò.
Ho chiesto a Ciro di consegnarti questa lettera il giorno dei tuoi 18 anni, dunque oggi dovrebbe essere il tuo compleanno, il mio augurio è che la tua vita abbia tanta fortuna e soprattutto che tu sia capace di goderne.
Ora puoi capire, per questo ti racconterò, ciò che non feci quando eri bambino.
Non ti parlai di tua madre perché questo mi procurava un dolore insopportabile. E’ vero ti trascurai perché preso da lei, ma come si fa a parlare di pene d’amore a un bambino?
Tua madre mancava a tutti e due, ma io ero colpevole e tu innocente e indifeso. Non ho saputo pensare in tempo a te e a lei. Ero giovane, lusingato dal successo, pilota dal futuro radioso, l’Officina aveva auto da preparare per 2 anni, i locali notturni chiedevano la mia presenza come attrazione, ero sempre circondato da donne, non sempre fui capace di dire no.
Trascuravo tua madre, non la portavo alle mie serate, lei un paio di volte si presentò e mi fece scenate di gelosia. L’egoismo del giovane non fa vedere la sofferenza degli altri, neanche della persona che ami, quelle scenate mi lusingarono anziché preoccuparmi. Amavo tua madre ma non fui capace di proteggere il nostro amore, fui la causa della sua distruzione.
Così prima per la folle vita che conducevo, dopo per il dolore della perdita di tua madre, io non ti ho dato quello che un bambino ha il diritto di avere.
Sono stato la causa principale della tua infanzia infelice, non penso che per questo ci sia perdono, ora che so, che desidero occuparmi di te, che potrei farlo, vi rinuncio per il tuo bene.
Il fatto che non sei mai venuto a trovarmi in carcere, neanche il giorno della mia uscita, mi ha fatto capire che pensare al tuo bene vuol dire starti lontano, perché questo è quanto tu desideri.
Tua madre, quanto mi lasciò voleva portarti con se, glielo impedii. Ancora una volta il mio egoismo mi impedì di vedere e rispettare, non pensavo a te ma solo a me. Credevo che così facendo lei non mi avrebbe lasciato, dopo la sua partenza pensai che per te sarebbe tornata. Presi una governante che ti accudisse e attesi il suo ritorno, che non ci fu mai.
Credo di essere impazzito per questo abbandono, sicuramente la mia vita ne fu distrutta. Non potevo accettare che lei mi avesse cancellato, e neppure che cancellasse te solo perché la legava a me. Per anni, anche in prigione, ho cercato di capire, alla fine la spiegazione poteva essere una sola: la sofferenza.
Mesi e mesi di sofferenza in solitudine, tua madre si spegneva giorno dopo giorno, ma io non vedevo, giorno per giorno fu costretta a cancellare una parte di se per sopravvivere, fino a che la disperazione non le fece prendere il telefono e chiamare i suoi genitori.
Parte di quanto ho scritto già la conoscevi, Ciro mi ha sempre parlato di te, di cosa chiedevi, cosa ti raccontava, ma io ho il bisogno di farti sapere la mia versione, quella di Ciro potrebbe essere stata troppo buona con me.
Ora vado in Venezuela, cerco di ripartire da zero, di riscattare i miei errori.
Voglio che tu sappia che in prigione sei stato motivo di forza e di speranza, questo grazie anche a Ciro che mi raccontava come tu desiderassi vedermi, mentre lui conveniva con me sull’idea che la prigione fosse un posto sbagliato per un ragazzo.
Questa lettera ti farà ancora soffrire, ma volevo che fossi io stesso a informarti del male che ti ho fatto, volevo che tu sapessi che, anche se troppo tardi, ho capito. Ancor prima di andare in prigione, ho chiamato i tuoi nonni in Sicilia per far sapere a tua madre che tu avevi bisogno di lei, ho cercato anche dalla prigione, ho anche chiesto a Ciro di farlo, sono convinto che loro non le hanno fatto mai sapere.
Una cosa buona l’ho fatta, ti ho affidato a Ciro. Sono convinto che da lui hai avuto il massimo per il tuo bene. Nella mia vita non ho mai avuto persona più cara e che più ho ammirato.
Avrei ancora da dire, di me per esempio, ma tradirei le intenzioni da cui questa lettera è partita.
Vincenzo.

– Penso che se quella volta facevo lo sforzo di andare in carcere avrei potuto cambiare il corso della vita di mio padre, e anche la mia, ma non l’ho fatto. Il tempo ha scavato distanza tra noi.
– Stai rovesciando il discorso di tuo padre? Lui aveva capito le sue colpe, si era convinto che fossero irrimediabili, si era convinto che il tuo istintuale rifiuto fosse una forza sana da rispettare. Era convinto che all’età che avevi non poteva fare altro, lui si preoccupava, ormai in modo esagerato, di fare scelte che non partissero dai suoi desideri, dalla sua centralità, insomma rinunciò al ruolo di padre perché secondo lui non era degno, ma soprattutto perché questo aiutava te, ti dava quella serenità che negli anni precedenti il suo egoismo ti aveva negato. Dunque tutto parte da una colpa non perdonabile, ma questo è peccato contro Dio, peccato di presunzione, Dio perdona tutti, Vincenzo doveva avere più fiducia ed umiltà, doveva chiedere il perdono a Dio e a te. Non lo fece. E cosa fai tu adesso? Parti da una tua colpa? No è! Questo è un sbagliato, distruttivo. E poi, mio caro, come puoi parlare di colpa quando i fatti sono così soverchianti rispetto al potere di un ragazzino? Perché non parti dal desiderio?
Questa lettera che turbamento ti ha provocato, desideri conoscere tuo padre? Desideri riconciliarti col tuo passato?
– Una cosa mi è chiara: mi ha voluto bene, tanto bene da rinunciare al suo desiderio di riprendermi con se. In questi anni tu mi hai educato a rispettare le scelte degli altri, a perdonare, a capire le ragioni. Avevo giustificato i miei genitori, ma non potevo fare a meno di chiedermi come si poteva abbandonare un figlio a cui si voleva bene.
– Devo aggiungerti ancora una cosa. Mi consegnò la lettera la notte prima di partire, qui a casa mia. Ti voleva vedere. Entrò nella tua camera, si sedette come faccio io, tu gli prendesti la mano come facevi con me. Rimase tutto il tempo finché non la lasciasti per girarti dall’altra parte.
“Sono sicuro che la cosa migliore per Carmine è che rimanga qui con te”, mi disse, “Questa lettera spiegherà perché faccio questa scelta, gliela darai quando potrà capire, gliela darai a diciotto anni”.

I giorni successivi Carmine si occupò dell’iscrizione universitaria, certificati al comune e al liceo, versamenti, moduli in facoltà. Si iscrisse al corso di laurea in Filosofia. Il tutto prese una settimana, dopo partì con Antonio, Mattia e Felice per la zona ionica della Calabria. Viaggio in treno fino a Paola, poi per Catanzaro e Catanzaro Lido per risalire verso nord. Roccella, Le Castella, Capo Rizzuto, …
Erano alla loro quinta esperienza, i primi tre anni a Paestum, il quarto anno si spinsero fino a Maratea, ed ora scendevano per la prima volta la Calabria. A Paestum avevano campeggiato in una grande tenda militare portata con la macchina di Ciro. Montarono la tenda in una pineta sul mare, una pineta che cominciava alle foci del Sele e finiva ad Acropoli. Vicino un fiumicello dalle acque limpide, lo usavano per lavare i piatti e per sciogliere il sale che il mare lasciava sulla pelle. In linea d’aria si trovavano tra la zona archeologica e il mare. C’erano solo loro, ogni tanto arriva qualche straniero che montava la tenda per due o tre giorni e poi andava via. Tra la pineta e la spiaggia c’era una piccola duna, nelle parti più basse si formavano dei piccoli stagni salmastri che andavano prosciugandosi a mano a mano che l’estate avanzava, li trovavano alla fine di giugno e prima di agosto erano già scomparsi. Il campeggio di quegli anni era una specie di colonia estiva. La tenda era così grande che la priva volta dovettero tagliare un pino, sotto erano sistemate in cerchio diciotto brande militari. C’erano i grandi dell’Azione Cattolica che avevano il compito di tenere l’organizzazione. Ciro veniva un paio di volte a settimana.
L’anno prima decisero di cambiare, mentre si continuava a piantare la grande tenda a Paestum, Antonio e Mattia, Felice e Carmine, comprarono delle canadesi a due posti e, zaino in spalla, si diressero più a sud. La prima tappa fu sempre Paestum, poi scesero a Palinuro, Marina di Camerota e Maratea. I campeggi attrezzati a pagamento erano presenti solo in località rinomate, per esempio a Palinuro c’erano diversi campeggi, compreso il Club Mediterranée.
Per il resto campeggio libero, nessuno poneva problemi nei terreni pubblici, mentre in quei privati ci si metteva d’accordo con i proprietari per una piccola cifra, spesso non prendevano soldi, ti raccomandavano alcuni comportamenti da rispettare e nulla più. Quando proprio non si trovava di meglio si piantava tenda sulla spiaggia, per esempio a Marina di Camerota campeggiarono sulla spiaggia dell’arco naturale mentre a Maratea si sistemarono sotto una macchia di carrubi di un contadino-pastore.
Il litorale di Maratea era scosceso ed impervio, trenta chilometri di costa con rari accessi al mare, un paradiso di verdi, blu, acque marine, fondali spettacolari con le stelle marine a dieci metri dalla costa, polpi sotto ogni scoglio, e ricci, patelle, triglie, scorfani, saraghi, muggini, murmure, cavallucci marini, e più giù cernie e murene. Sui terrazzamenti coltivati a grano campeggiavano carrubi secolari, d’estate c’erano le stoppie sotto e sopra, dai rami, scendevano le sciuscelle zuccherine che attiravano api, vespe e calabroni, ma anche così buone da mangiare. Il paesaggio agricolo pastorale e il mare in fondo erano gli stessi dai tempi della colonia greca.

Ora scendevano in Calabria per la prima volta, e sempre per la prima volta avevano deciso di campeggiare in più luoghi.
La prima tappa la fecero a Roccellette, una grande spiaggia, un campeggio a pagamento e poi spazi a volontà. Alzarono le tende sotto una macchia di eucalipti, stavano ai margini della spiaggia, e avevano il vantaggio di sostare in un’area demaniale, quindi nessuna problema con i contadini che coltivano la piana. Erano lì da tre giorni quando di notte si svegliarono per l’abbaiare dei cani. Si accorsero subito di un chiarore insolito per l’ora, c’era un’ incendio spinto dal libeccio, prendeva i crinali di erba secca delle colline e arrivava fino alle macchie di eucalipti. Levarono le tende, sistemarono gli zaini e si trasferirono sulla spiaggia in attesa che l’incendio passasse, ma l’aria calda carica di cenere infuocata e il fumo acre rendevano difficile la respirazione, si misero in marcia verso Nord, fino ad arrivare al sobborgo di Roccellette, aspettarono in spiaggia l’alba, presero un bagno e partirono per Capo Rizzuto.
La Calabria sembrava una terra abbandonata, negli ultimi anni c’era stata una forte emigrazione verso il nord, un’emigrazione ancora in corso e che aveva svuotato i paesi. Qualcuno d’estate tornava a trovare i vecchi genitori, le macchine in giro avevano targhe tedesche, svizzere, e poi tutti i capoluoghi lombardi, piemontesi e liguri, il triangolo industriale GE-MI-TO.
Si fermarono a Le Castella, nella macchia mediterranea davanti ai ruderi di un castello che scoprirono essere di epoca aragonese.
La località prendeva nome dal castello, ora un ammasso di ruderi, costruito per difendere le coste dai pirati. Nel XVI secolo aveva resistito agli attacchi del pirata Barbarossa. Una baracca sulla spiaggia vendeva gelati, bibite e preparava piccoli pasti. L’isola davanti a noi una volta faceva parte di un arcipelago che ne comprendeva cinque, disse un signore anziano sotto la tettoia del bar.
– E che fine hanno fatto le altre quattro? Chiese Mattia
– Si fanno tante ipotesi, Plinio ce ne fornisce i nomi, dunque ai tempi dei romani ancora erano ben visibili. Ad una di esse attribuiva il nome di Ogigia, l’isola della dea Calipso.
– Quella dell’Odissea?
– Esattamente
– Ma non doveva essere al confine del mondo, il luogo più selvaggio, il luogo del primitivo?
– E in effetti per i greci dei tempi di Ulisse la nostra penisola era al confine del mondo. Ulisse vi naufragò, fu salvato dalla dea, e vi rimase in amore per sette anni. Poi gli dei ordinarono a Calipso di lasciare andare il naufrago.
– Non ho mai sopportato questa separazione. E’ posticcia, non è credibile, oltre che crudele. Perché se la storia narrasse di un amore finito, uno dei due che non amava più e allora si capiva, e invece no, loro si amano, ma gli dei devono far ripartire Ulisse. Che fine fece Calipso?
– Si dice che Ulisse partì felice con la sua zattera mentre lei rimase sola in lacrime, alla riva e per l’eternità.
– Gli antichi parlano sempre di filtri, di dei che danno e tolgono i sentimenti, danno e tolgono la memoria, si tratta di allegorie della caducità dei sentimenti umani.
– O forse un sistema per liberarsi dai fardelli insopportabili? Chissà, forse gli uomini si consolavano deponendo in loro tutto il difficile del mondo. Oggi che ci siamo fatti Dio non sappiamo in chi deporre le nostre pene.
– Venite da Napoli?
– Si, dalla provincia
– Ho studiato a Napoli, ci sono stato cinque anni per prendere la laurea in lettere antiche. Parlo della fine degli anni venti. Adesso sono prossimo alla pensione, sono trentasette anni che insegno al liceo di Catanzaro.
– Noi abbiamo preso la licenza proprio la settimana scorsa.
– Bravi, e dove?
– Al Liceo classico Carducci di Nola
– Conosco Nola, già capitale dei Sanniti della valle, città natale di Giordano Bruno, luogo della morte di Ottaviano Augusto, e anche luogo dove iniziarono i moti costituzionalisti del 1829. Tanti anni fa io dovevo rimanere a Nola, mi ero fidanzato con una ragazza di lì, l’avevo conosciuta ad un esame universitario. Poi il fidanzamento non andò nel verso giusto e tornai alla mia Calabria.
– Scusate professore ma le isole? Che fine hanno fatto le isole? Si intromise Antonio
– Secondo Plinio si chiamavano Dioscori, la più grande, Ogigia, Tiris, Eranussa e Meleoessa le altre. L’erosione delle coste, l’aumento dell’altezza del mare, fenomeni di abbassamento del suolo, sono queste le varie ipotesi della loro scomparsa. Oggi si pensa possano essere delle secche che si trovano davanti la costa: Le Castella, Soverito, Seleno, Capo Rizzuto, Madonna Greca, Capo Bianco e Capo Cimiti. Se sapete nuotare e vi piace vedere i fondali non ve le dovete perdere, sono un paradiso.
– Come facciamo a capire dove si trovano, ci sono delle piante?
– Ci sarebbero le carte nautiche, ma qui non le trovate.
Se volete domani ci possiamo andare insieme, ma sarebbe bene avere le pinne, si nuota meglio, siamo più tranquilli.
– Dove le possiamo trovare?
– Uhm, qualcosa c’è a Capo Rizzuto, ma se volete qualcosa di meglio dovete andare o a Crotone o a Roccellette.
Il pomeriggio visitarono i ruderi del castello aragonese, un passaggio asciutto legava l’isola alla terra ferma, il castello era enorme, dai ruderi si poteva vedere meglio la costa, c’erano torri e fortificazioni a vista che si inseguivano a sud verso Catanzaro e a nord verso Crotone.
La sera radunarono legname che il mare aveva depositato sulla spiaggia, interi alberi con i resti delle radici e degli attacchi dei tronchi, rami, canne, cassette di legno, fasciami di barche.
Accesero il fuoco, unica fonte di luce per chilometri, si vedevano le fioche lampadine delle strade dei centri dell’entroterra.
Le coste nei tempi passati non erano sicure, c’erano fortificazioni e torri di avvistamento, ma poi i centri abitati sorgevano nell’entroterra, spesso nascosti alla vista dalle colline più prossime alle coste.
– Però, ci pensate davanti a noi c’è Ogigia.
– Ci sono anche altre attribuzioni.
– Si ma Plinio, non è l’ultima delle fonti.
– Ma se questa era Ogigia, possibile che Ulisse non ebbe mai voglia di scendere a terra? In fondo era a uno sputo!
– Ma che ne sapeva Omero di queste isole? Lui, o chi per lui, componeva su informazioni frammentarie dei primi naviganti. Le informazioni erano molto approssimative, sempre che non fossero pure invenzioni. Solo in tempi più recenti, per esempio nel periodo della Magna Grecia, si è cercato di collocare geograficamente il mito.
– A me non affascina Ulisse, anzi, mi è stato sempre antipatico, affascina ciò che incontra nei suoi viaggi. Più di tutti le figure femminili, Circe, Calipso, Nausica. Belle, innamorate e lui che fa? Torna ad Itaca da Penelope, che palle!
– Forse perché non ce la faceva più. Doveva essere prossimo ai cinquanta e a quei tempi si era proprio vecchi.
Conversavano stesi sulla spiaggia intorno al fuoco, mani dietro la testa, davanti il mare e le stelle che si alzavano dalle acque. L’arco celeste avanzava proponendo costellazioni del mito greco.
– Ma nelle altre parti del mondo hanno altri miti da collegare alle stelle?
– Sicuramente, non crederai che solo noi del mediterraneo ne abbiamo.
– Ho visto una stella cadente
– Hai espresso il desiderio?
– Non ne ho.
– Facciamo a chi ne vede di più?
– Eccola, è partita dall’arco del cacciatore
– E quella? Ha attraversato il grande carro
– Io un desiderio ce l’avrei
– Eh! metterti con Maristella!
– E’ una cosa più seria
– Una cosa seria?
– E’ uno cosa seria seria.
– E dilla!
– Conoscere i miei genitori.
– Ma non avevi sempre detto che non te ne fregava niente?
– Si, ho sempre pensato così ma è successo una cosa che non sapete. Il giorno dei quadri, quando sono tornato a casa, Ciro mi ha consegnato una lettera di mio padre, l’aveva scritta prima di partire per il Venezuela, me la doveva consegnare per i miei diciotto anni.
– E vorresti andare in Venezuela?
– Sono confuso. Mio padre è partito perché convinto che era quello che volevo io, lo ha fatto per il mio bene. Scrive che aveva capito gli errori di prima, che desiderava vivere con me, occuparsi di me come un vero padre, ma che io mi trovavo bene con Ciro. Il fatto che non lo avevo voluto vedere lui lo capiva e perciò per il mio bene si toglieva di mezzo, rinunciava al desiderio di vivere con me. Come Nausica per Ulisse, uno per amore di un altro rinuncia all’altro.
– E allora ci vai in Venezuela?
– Forse.
– E non ti dice nulla di tua madre?
– No.
– Però tua madre dovrebbe essere molto più vicina.
– Forse.
– Non era di Catania?
– Si, mio padre la cercò per anni ma lei a Catania non c’era più, o almeno lui non la riuscì a trovare.
– Però i suoi genitori, i tuoi nonni, stanno ancora lì.
– E’ probabile.
– Perché non ci andiamo a Catania?
– Ma quelli non hanno mai chiesto di me, mai. E se poi mia madre fosse morta? Potrebbe essere una spiegazione no?
– Ma tu cosa vuoi, che sia viva o che sia morta?
– E’ difficile, se è morta potrei pensare che mi voleva bene, che mi avrebbe cercato, non l’ha fatto perché morta. Però così avrei perso qualsiasi possibilità di conoscerla. Nell’altro caso invece vuol dire che non gliene fregava niente di me.
– Ma tu cosa vuoi?
– Mi piacerebbe conoscerla lo stesso.
– Allora scendiamo a Catania.
– Si dai, andiamo.
– Ma siete pazzi?
– No, aspetta Carmine, pensaci bene, se ti va noi ti daremo una mano. No?
– Dobbiamo andare a Catania Carmine.
– Oh! Calma. Calma.
– Non domani Carmine, domani abbiamo i fondali col professore. Neanche dopo domani. Però fra tre quattro giorni …., anche la settimana prossima.
– Si come no.
– Stella nella cintura di Orione!

La mattina Mattia uscendo dalla tenda trovò Carmine sulla spiaggia, era seduto davanti al sole sorto da poco, era semi avvolto nel sacco a pelo. Si avvicinò all’amico, si sedette a fianco senza parlare. Carmine non si mosse.
– Stanotte sono stato ad Itaca.
– Con Ulisse?
– No, con Penelope
– Vuoi dire che eri Ulisse?
– O forse Telemaco.
– Tua madre?
– Si. Sono sconvolto, ho fatto un sogno tremendo. Non so neanche se sia tremendo. Parto dall’isola di Ogigia con una piccola barca a remi. Remo, remo e approdo ad Itaca, è notte, salgo su per il palazzo reale, le guardie dormono, entro di nascosto, cerco Penelope, non la conosco, mi aspetto che accade qualcosa, in una stanza, al lume di una lanterna ad olio una donna ha un seno fuori dal reggiseno, bellissimo, bianco, dolce, da fanciulla. Lo guardo con piacere, lei si rigira verso il letto, mi ritraggo, ci ripenso, non voglio rinunciare al piacere che mi dà, entro nella stanza da letto, lei adesso è senza reggiseno, si lascia guardare, c’è intimità tra noi, posso osare, posso chiedere, toccare, non mi sarà vietato, mi sarà dato, non sarò cacciato. Un piacere fortissimo mi prende.
– Per la miseria! ma tu sei Ulisse o Telemaco?
– Che ne so? Il piacere che ho provato mi ha sconvolto, nella mia vita di giorno non ho mai provato uno sfinimento così dolce e totale.
– Meglio che quando ti fai le pippe su Maristella?
– Non scherzà Mattia. E’ un’altra cosa, una cosa che dopo puoi anche morire. Mi sono svegliato, sono rimasto per lungo tempo a ripassare questo piacere, mi sono riaddormentato e ho sognato ancora.
Una donna in attesa, è quella di prima, ma è invecchiata; un’esequie processione tra due ali di folla davanti alla parrocchia del paese, attacco a cantare il Kyrie Eleison della messa cantata. Ciro in paramenti sacri mi dice che devo smetterla, quello è un canto gioioso mentre questa è una cerimonia funebre. Arriviamo ad un cimitero obitorio, lì deve essere lasciata la salma, capisco che sono le esequie di mia madre, entro nella sala, cammino lungo un corrimano dove fanno scivolare le bare, su un muretto c’è seduto un uomo, ha pianto nell’ultimo saluto, ha il fazzoletto in mano, sta ancora piangendo, mi guarda, mi avvicino, mi dice “ecco un attimo, è solo un momento, non ce la facevo più”. Penso sia mio padre, ma non è come lo ricordo io, lo accarezzo e lo avvicino a me, io non piango, ho tenerezza per lui, è magro, pelle e ossa, è in canottiera e calzoncini corti, è gracile, sparuto; poi vedo la bara, è piccola, marrone, no vinaccia, un vinaccia più rossiccio, scivolo giù per andare nel cunicolo destinato alla bara, a terra raccolgo uno slip di donna, bianco con merletto azzurro, sono i suoi, li prendo e continuo a scendere, giù arriva la bara, ma è solo una grossa scatola di latta, si è pure ammaccata, la controllo per vedere se è rotta, se è fuoriuscito qualcosa, depongo sulla bara le mutandine e risalgo su.
– Porca miseria Carmine, ma che sogno è?
– E’ finito solo perché mi sono svegliato. Ho avuto paura di riaddormentarmi e sognare di nuovo. Allora sono venuto qui in spiaggia ad aspettare l’alba.
– Hai deciso qualcosa?
– Ho paura. Per aver parlato ieri sera di Catania è successo il finimondo. Non ce la farò.
– Chissà cosa vorrà dire il sogno.
– Una tempesta. Ho una tempesta dentro, il sogno è la tempesta che si è scatenata dentro di me.
– Però Ulisse si salva sempre dalle tempeste, anzi ogni tempesta finisce coll’aprire un nuova conoscenza, una nuova storia. Devi avere coraggio e affrontare la tempesta
– Andiamoci a Catania, sempre se vi va ancora.

Partirono tre giorni dopo, decisero che nessuno avrebbe parlato alle famiglie del cambiamento di programma. Partirono con una lettorina diretta a Reggio Calabria, la ferrovia percorreva tutto il litorale ionico, a volte lambiva le spiagge, un viaggio di cinque ore tra macchia mediterranea, eucalipti, ampie zone bruciate dai pastori o dai contadini, agrumeti nella conca di Soverato, ancora nella Locride, torri romane, torri saracene, torri rinascimentali. Dopo Locri la ferrovia girava intorno all’Aspromonte per approdare all’ imbarco di San Giovanni. Presero un treno per Siracusa, si fermarono prima di Catania, tra Acitrezza e Aci Sant’antonio, in un campeggio.
Dall’estratto di nascita risultava che Maria Mondella nata Cuffaro, di Giuseppe e di Rosaria Vinciguerra, alle ore 8,30, addì 20 dicembre 1948, dava alla luce un maschio a cui il padre, Vincenzo Montella, fu Pasquale e fu Carmela Esposito, diede il nome di Carmine. Il Giuseppe padre di Maria era un avvocato.
Sull’elenco telefonico di Catania c’erano: una Rosaria Cuffaro, professoressa, quattro Giuseppe Cuffaro negozio di alimentari, due erano avvocati, uno di questi aveva un numero per la casa e altri due per lo studio, c’era anche un medico,  e una Rosaria Cuffaro senza titolo.
La coppia Mattia e Antonio partirono per la professoressa, Carmine e Felice per il primo avvocato.
Esclusero Rosaria Cuffaro, una professoressa prossima alla pensione che non si era mai sposata. A
bitava al terzo piano di uno stabile di via Etnea e per sapere  Mattia si è offerto di portare la pesante borsa della spesa di una donna che entrava nel palazzo, quella che poi è risultata essere la Cuffaro.
– Si, la poveretta non ce la faceva, io l’ho aiutata. Comunque ho buttato la “ma non si potrebbe far aiutare da suo marito, da un figlio”. E lei “signorina sono”. Mi voleva far entrare in casa per una bibita fresca, ho rifiutato
Anche il primo avvocato era da escludere, “è giovane per essere mio nonno, è un quarantenne, mio nonno dovrebbe stare sui settanta. Dobbiamo mettere in conto molte altre variabili. Che non abitano più a Catania, che non hanno telefono”.
– Questo lo escludo, un avvocato per mestiere il telefono ce l’ha di sicuro.
– Rimane il trasferimento.
– Potrebbero anche essere morti. O essere morto Giuseppe.
Perché fasciarsi la testa? Abbiamo ancora due persone. Dopo passiamo ai paesi vicini.
La signora Rosaria Cuffaro toccò alla coppia Mattia e Antonio. Il numero civico 215 di Corso Martiri della Libertà era una palazzina a due piani di fine 800, la palazzina aveva un muretto di cinta basso sormontato da una cancellata dipinta di nero, la facciata a due toni di grigio, quello più scuro a sottolineare le linee verticali dei muri portanti, il più chiaro per le pareti. Tra il muro di cinta e il corpo di fabbrica un viale mattonato in mezzo a due strisce di piante e fiori, il tutto molto ben curato.
C’erano due campanelli sul muretto del cancello, uno corrispondeva alla Cuffaro, piano sopraelevato, l’altro a Salvatore Giancotti, studio medico dentistico, primo piano. Una targa indicava l’orario di ricevimento: dal lunedì al venerdì, ore 16 – 19. Il dottore abitava al piano stesso dello studio. Una signora era scesa in giardino a innaffiare le piante. Dopo un po’ una donna delle pulizie si affacciò da una finestra del piano sopraelevato e la invitò a risalire. Doveva essere la Cuffaro. Quando ridiscese in giardino Mattia e Antonio si avvicinarono.
– Permette una domanda signora?
– Prego
– Lei è la signora Cuffaro vero?
– Si?
– Da giovane Vinciguerra poi maritata con Giuseppe Cuffaro?
– Mio marito è morto tre anni fa.
– Noi avremmo una cosa molto delicata da riferirle. Ci rendiamo conto che le circostanze sono un poco strane ….  ma abbiamo buoni motivi per importunarla in questo modo.
– Allora potreste presentavi come si fa tra cristiani
– Mi chiamo Mattia e lui è Antonio, veniamo da Napoli. Abbiamo un amico che ha la nostra stessa età, diciotto anni, si chiama Carmine Montella, Minù.
La signora, visibilmente turbata, andò al cancello e li fece entrare in casa.
Si accomodarono in salotto.
– Cosa posso offrirvi? Un gelato, una granita con la brioche, una bibita fresca?
– La granita signora.
– Per tutti e due.
Chiamò Anita, “telefona a Peppuzzo e ordina due granite, a che gusto?”
– Gelsi
– Mandorla
– E il solito caffè per noi due.
Anita uscì.
– Carmine Montella, Minù, sarebbe mio nipote?
– Se lei è la madre di Maria Cuffaro, maritata con Vincenzo Montella, si, Carmine è loro figlio.
– Voi sapete come stanno le cose?
– No, cioè si, sappiamo che il nostro amico non ha conosciuto la madre, cioè, non la vede da quando era piccolo, in pratica non l’ha conosce. Carmine non sta neanche con il padre, non lo vede da dieci anni. Insomma è vissuto senza genitori, ed ora vorrebbe conoscerli, soprattutto la madre.
– E perché non è venuto lui di persona?
– Circostanze, pure circostanze. Lui probabilmente in questo momento sta cercando di parlare con un avvocato che si chiama Giuseppe Cuffaro, come suo marito. Ci siamo divisi le persona da contattare.
– Per anni ho sperato e temuto questo momento, poi mio marito è morto ed io mi sono persa un po’. Ma ci pensavo, ci pensavo e non agivo, ultimamente ho sperato che accadesse, ho sperato che fosse lui, il figlio che, con la forza della gioventù, con il coraggio degli anni, prendesse l’iniziativa. E’ inutile nascondersi, mi sento colpevole nei suoi confronti, per questo temevo e temo il suo giudizio.
– Carmine è un bravo ragazzo. Lui non ha rancori, assolutamente signora.
– Se ho capito bene, Carmine adesso vuole aggiungere qualcosa alla sua vita, degli affetti in più, vuole allargare il numero di persone a cui essere legato. Voglio dire che viene non per chiedere conto del passato, ma per conoscere e per provare a voler bene a delle persone.
– Si, ha ragione Antonio, Carmine viene ben disposto, tra l’altro tutto è nato all’improvviso. Noi presa la licenza liceale abbiamo deciso di partire per la Calabria. Stavamo in campeggio a Capo Rizzuto quando Carmine ci ha raccontato di questo desiderio. Noi l’abbiamo incoraggiato, e così siamo scesi in Sicilia.
– E quando potremmo incontrarci?
– Dica lei.
– E’ meglio prima possibile, si fanno cattivi pensieri. Per me va bene anche oggi pomeriggio.
– Facciamo dopo la controra?
– Si alle sei va bene.
Arrivarono le granite e i caffè. Anita dopo aver servito gli altri, sedette a fianco della signora e prese il suo caffè.
– Oggi dovrai fare gli straordinari. Anita mi devi fare il favore di ritornare oggi pomeriggio e rimanere anche per la serata. Ho ospiti napoletani.
– I due signorini qui presente?
– Ed altri due, sono quattro gli ospiti, ma non è per questo che ti chiedo aiuto, una cena per cinque la posso ancora preparare, è che io devo rimanere col loro, non posso stare in cucina.
– Non ci sono problemi signora, però glielo confermo all’ora di pranzo, torno a casa e le faccio subito sapere.
– E dove siete alloggiati?
– Siamo in un campeggio tra Acitrezza e Aci Catena. E’ un posto ben collegato con Catania.
– E ditemi una cosa, Carmine ha una famiglia adottiva?
– In un certo senso. Il padre lo affidò a un suo caro amico, Ciro. Ciro è il parroco del nostro paese.
– Lo ha cresciuto un prete?
– Si, arrivò che aveva nove anni. Stavamo in quarta elementare, il parroco bussò alla porta dell’aula e entrò con un bambino. Il maestro ci disse che il nostro nuovo compagno si chiamava Carmine Montella.
– Allora non ho mai avuto una madre, una figura femminile a fianco?
– Proprio una madre no, non l’ha avuta. C’era Angelina, la donna che si occupa della parrocchiale, lei lo ha accudito fino ad oggi. Lui le è molto affezionato, anche a Ciro naturalmente.
– Allora signora se non c’è altro noi andremmo, siamo ansiosi di riferire il suo ritrovamento.
– E anche prepararci al ritorno.
– Ma lei dice che ci dobbiamo stare anche noi, oppure e meglio che Carmine venga da solo?
– E’ meglio per me, e forse anche per lui, essere in compagnia questa prima volta.
Si congedarono dalla signora e tornarono al campeggio.
Il pomeriggio comprarono un mazzo di fiori e si recarono dalla signora Vinciguerra in Cuffaro.
Allo donna tremò per i primi minuti il mento, il nipote fu poco presente, la signora sistemò i fiori nel vaso.
– Non vi dovevate disturbare, e voi giovani siete sempre a corto di soldi. E’ vero o no?
– Vi manca sempre un soldo per fare una lira, dice mio padre.
– E tu come te la passi Carmine?
– A soldi? Non me la passo male. Spendo per andare al cinema e per comprare libri. Per mia fortuna non fumo e così rispetto a loro risparmio un bel po’.
– Dovete sapere che io ho insegnato proprio al classico per quaranta anni. Ora da cinque sono in pensione. Ho insegnato greco e latino, per le mie classi è passata mezza Catania che conta.
– Io sono stato rimandato per tre anni a greco. Il greco era la mia bestia nera.
– Bisogna saperlo prendere all’inizio. E adesso cosa farete?
– Mattia va a Matematica e Fisica, Antonio a Medicina, Felice a Legge, ed io a Filosofia.
– Quindi vi dividete?
– Eh si, basta stare assieme, non ne potevo più di questi tre!
– E tu Carmine perché hai scelto Filosofia?
– E’ la materia che più mi è piaciuta al liceo.
– Maria ha studiato Filosofia.
– Davvero?
– Si, si era appena iscritta quando scappò con tuo padre. Poi passò a Napoli e lì si è laureata nell’autunno del 1951, a solo ventidue anni.
– Scappò?
– Carmine, tuo padre allora era un ragazzo con la testa tra le nuvole. Correva su auto preparate da lui. Lo abbiamo conosciuto a una corsa sulla pendici dell’Etna. Correva rischiando ad ogni curva l’uscita di strada. Era bravo, pensa che nonostante avesse una macchina inferiore alle altre delle grandi scuderie arrivò secondo. Lui si divertiva, non conosceva paura,  sarebbe diventato un grande pilota. Giuseppe a nome dell’amministrazione comunale di Catania doveva premiare i vincitori. Maria lo volle conoscere e salì sul palco con il padre. Lui la invitò per la festa che si teneva la sera.
Fu l’amore, di quelli che non sentono ragioni, quelli che spianano il mondo, comprese le persone e i passati affetti.
Giuseppe cercava di trattenere la figlia, le ricordava che aveva appena compiuto diciotto anni, che aveva l’università, che Vincenzo aveva una vita tumultuosa. Che fai, corri appresso a lui che va da un posto all’altro d’Italia. Hai visto come guida? Rischia la vita ad ogni curva. Che ne sarà di te? Che posto ci sarà per te? E ancora: Non ha studiato e tu ti laureerai. Che ci farai un giorno con un marito che non sa neanche parlare in italiano?
Ma lei non ci sentiva, quella vita che tanto preoccupava noi era il suo sogno. L’uomo che non ha in conto il pericolo, che si diverte laddove gli altri tremano, ha fascino, e lui era anche molto carino. Io la capivo Maria, ma una madre pensa ad altro, i figli non vedono, non misurano, non contano, una madre prende paura. Cercammo di farla ragionare, di far ragionare tuo padre. La risposta fu che un giorno lei prese un po’ di vestiti e saltò nella macchina di Vincenzo. Giuseppe si impuntò, non volle andare al matrimonio, i nodi invece di sciogliersi si intorcinarono.
– Mio padre non mi ha mai parlato di mia madre, le poche cose che so coincidono con quello che lei sta dicendo, me le ha raccontate Ciro.
– Il tempo riduce i fatti all’essenziale, anni fa avrei messo molto più tempo a raccontare
– La sentivo per telefono di nascosto da mio marito, ogni settimana; che poi lui lo sapeva benissimo, a un certo punto faceva ”chissà Maria se ha avuto il bambino, chissà Maria come l’ha chiamato il bambino, chissà come sta Carmine,…….” si aspettava che io avessi notizie da dargli, una foto da mostrargli.
Quando ha cominciato a soffrire per l’assenza di Vincenzo, io ho provato a parlare con lui ma mi chiudeva il telefono in faccia. Appena presa la laurea cadde in depressione, non usciva più di casa, per telefono la sentivo sempre più svagata, flebile di voce, capii che non mangiava.
– E mio padre non si rendeva conto di cosa stava succedendo.
– Tuo padre stava fuori casa, e di testa, per settimane. E quando era a Napoli spesso tornava a casa all’alba, quando non tornava affatto. Invitavo Maria a venire un po’ a Catania, le dicevo che anche Giuseppe l’aspettava a braccia aperte. Ebbe la forza di partire, ma non fu facile perché tuo padre, le disse, va bene, vai, ma Carmine rimane qua! Carmine non si muove da casa mia. Lei cercò di convincerlo che il bambino aveva bisogno della mamma, che non poteva stare con lui che non c’era mai. Se Carmine ha bisogno di te perché non rimani in questa casa che è la tua casa e la casa di Carmine? Più volte si fermò con la valigia già pronta perché Vincenzo prometteva di cambiare vita. Nulla da fare, alla fine prese il treno per Catania. Preparai Giuseppe, perché non era vero che la stesse attendendo a braccia aperte. I maschi pensano troppo a cose come “orgoglio ferito”, “offese”. I maschi non perdonano tanto facilmente. L’andammo a prendere alla stazione. Non si reggeva in piedi. L’abbiamo dovuto ricoverare d’urgenza in ospedale, da lì in una clinica per malattie mentali, alimentazione forzata e psicofarmaci. Dopo due mesi di decenza senza alcun miglioramento ci consigliarono una clinica in Svizzera. Partimmo io lei, ci siamo rimasti sei mesi. Intanto tuo padre la cercava, l’ha cercata tante volte, è venuto qui, ha pagato persone per trovare Maria, non c’è riuscito sai perché? Perché lui non si era accorto quanto fosse malata. Mentre Maria era in una clinica perché voleva morire, Vincevo la faceva cercare per ville, locali notturni, ambienti universitari.
Siamo tornati a Catania per il natale del 1952. Solo al ritorno abbiamo saputo da Giuseppe che tuo padre aveva fatto il pazzo e che sarebbe ancora tornato. Per Maria tutto era avvolto nella nebbia dei farmaci, il male di vivere era affrontato in lunghe sedute psicanalitiche, sembrava priva di qualsiasi emozione. Ci consigliarono di tenerla lontana da tutto ciò che potesse sconvolgere il fragile equilibro che aveva raggiunto, aveva bisogno ancora di tempo. A gennaio del 53 partimmo di nuovo per la Svizzera, questa volta non in clinica, prendemmo una casetta e le sedute le seguiva in uno studio privato. In estate cominciò a stare meglio, io tornai a Catania e ripresi ad insegnare. Restò in Svizzera fino alla primavera del 53, tornò a casa che non prendeva più farmaci, disse che voleva viaggiare, che voleva visitare gli Stati Uniti. Partì a giugno di quell’anno e tornò che era il mese di novembre. Ci disse che quel paese gli piaceva molto e che si voleva iscrivere all’università per poter riprendere gli studi lì. Ci è rimasta, vive a Boston, insegna in una università di quella città. Nel 1960 ha ottenuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota, nello stesso anno ha sposato un suo collega americano. Ha avuto con lui due figli. E’ tornata in Italia nel 62 e abbiamo conosciuto Jimmy, il marito. Poi è tornata nel 64 per la morte di Giuseppe.
– Lei sa che mio padre è stato in galera?
– Lo abbiamo saputo nel 1960 proprio per l’annullamento del matrimonio. Abbiamo saputo che tu eri stato affidato a una buona famiglia e che stavi bene.
– Mio padre dopo l’abbandono si è perso, non correva più, non lavorava più, si riempì di debiti con degli usurai che gli imposero di guidare una macchina per una rapina. Andò male, si costituì, prima di andare in galera mi affidò a Ciro.
– Entrò Anita per dire che la cena era pronta e che si potevano accomodare nel tinello.
Alla fine della cena la signora Rosaria chiese a Carmine se gli andava di fare colazione con lei la mattina dopo. Carmine rispose di si, e invitò i suoi tre amici per la cena. Vi voglio portare a Zafferano Etnea, un paese alle pendici del vulcano, l’aria è fresca e si mangia molto bene.
La mattina dopo alle nove Carmine suonò il campanello, venne ad aprire Rosaria. La donna lo abbracciò con affetto.
– Sei il benvenuto in questa casa.
Il ragazzo ne fu imbarazzato, non era abituato a manifestazioni affettuose così esplicite.
– Grazie, rispose appena in un soffio.
– Carmine, i fatti potranno indurti a pensare che io possa esagerare, o peggio che non sia sincera, credimi è da quando è morto mio marito che penso a come arrivare a te. Il fatto che ti sei presentato è il più grande dono che il signore mi potesse mandare. Si commosse e prese a piangere.
Si accomodarono nel tinello, sul tavolo c’era una guantiera di pasticcini, tazze da the e da caffè, piattini con marmellate, uno colmo di gelsi neri, una caraffa con succo di arance.
– Questa notte non ho chiuso occhio, ho passato e ripassato questi anni alla ricerca delle giustificazioni, per tuo padre, per Maria, per mio marito e per me. Com’è possibile che non ci siamo occupati di te? Non c’è perdono per questo, soprattutto per noi che non vivevamo la tragedia dell’amore. Si possono giustificare i due giovani travolti dalla passione, dalle gelosie, dall’incapacità di affrontare la vita, ma non io e Giuseppe. Ci siamo limitati a chiedere a tuo padre di prenderci cura di te, lui, poverino, pensava che tenendoti avrebbe riportato a casa Maria. Tu sei stata la vittima di tanti egoismi, e anche di tante miopie.
– Fino a qualche settimana fa io avevo completamente cancellato il mio passato. Poi Ciro mi ha consegnato una lettera di mio padre. Quando lui stava in prigione io non l’ho voluto vedere, neanche il giorno che è uscito, non volevo avere a che fare col mio passato, e lui ha capito che doveva sparire. La lettera mi ha fatto scoprire che lui non mi aveva abbandonato ma mi amava tanto da rinunciare a me. Ho cominciato a pensare che le cose possono essere diverse da come sono state raccontate, diverse da come per anni sono state sistemate nella tua mente. Come erano i miei genitori? Come saranno adesso? Dico proprio fisicamente, che voce hanno, cosa è successo. Un’altra cosa ho capito, il senso dei fatti cambia in base all’età che hai, e anche i racconti cambiano. Quando sei piccolo te la raccontano in un modo, cresci e il racconto cambia, o forse cambia come tu lo recepisci, o forse tutte e due assieme. All’improvviso la voglia di sapere è diventata importante, quasi opprimente. Di mio padre ho tracce, sono stato con lui fino a nove anni, di mia madre non ho mai avuto niente. Neanche una foto.
– Tuo madre non aveva tracce di Maria da poterti mostrare, perché lei prima di partire distrusse tutto quello che poteva appartenerle.
Si alzò, prese da sopra uno scaffale una pila di album di fotografie.
– Stanotte quando non potevo dormire le ho tirate fuori per mostrartele. Se ti va le percorriamo assieme così posso darti tutto quello che ancora mi ricordo. Intanto serviti, vado ad accendere il fuoco sotto l’acqua del the e metto su la caffettiera.
Prese dei gelsi neri grandi come prugne.
– Quando ero piccolo d’estate veniva sempre un ambulante a venderli, ce li dava sopra una foglia di fico, ci spruzzava sopra un velo di zucchero. Poi sono scomparsi, dalle parti mie nessuno li vende più. Prese un pasticcino alla crema, poi uno al cioccolato. Arrivò Rosaria con caffè e il the.
– La spremuta l’hai bevuta? Le nostre arance solo le più buone del mondo, la spremuta la mattina fa bene. Allora, cominciamo dal 1929 quando è nata tua madre.
– Le chiedo scusa, ma ho troppo voglia di vedere com’è adesso, o com’era quando sono nato io.
– Hai ragione. Non ne ho molte di quando sei nato tu, solo qualcuna che mi spediva per posta.
Prese il 1947 e 1948.
– Tutto è cominciato qui.
Aprì su una foto che ritrae un palco dove un uomo corpulento ha in una mano una coppa e sta allungando l’altra verso un giovane che si sta piegando per ricevere congratulazioni e coppa.
– Giuseppe è l’uomo con la coppa, tuo padre si sta abbassando per riceverla, lei si scorge di lato semicoperta dal corpo di mio marito. Aveva tagliato i capelli a caschetto.
Una ragazza sorridente con i capelli a fila centrale che appena coprono le orecchie, capelli e occhi scuri, sguardo malizioso, ovale regolare, infagottata in un cappotto tweed, una perla per orecchini, sta guardando il premiato con la testa girata verso l’alto del podio.
– Poco dopo lei si congratulerà con tuo padre che comincia subito a corteggiarla. Del resto lei era andata lassù proprio per questo.
La pagina seguente contiene un ritaglio di giornale, c’è la foto di due giovani che stanno ballando e che si sono girati al fotografo che li ha chiamati.
La festa della sera della premiazione. Ancora un ritaglio di giornale, due ragazzi in costume da bagno su una spiaggia, sono abbracciati, la didascalia recita, L’astro nascente dell’automobilismo su strada, Vicenzo Montella con la sua nuova fiamma Maria Cuffaro, figlia dell’assessore allo sport del comune di Catania, già affermato penalista del foro catanese.
– Il clima era questo, pruriginoso e scandalistico. A loro piaceva andare a finire sui giornali, a noi non tanto.
Ancora un ritaglio di giornale, i due giovani si stanno baciando davanti al duomo di Napoli, la didascalia: il noto pilota Vicenzo Montella ha sposato ieri mattina Maria Cuffaro figlia di un noto uomo politico di Catania. Invitati solo pochi amici intimi. La foto li ritrae all’uscita del duomo tra i due testimoni.
– Quello a destra è Ciro, è vestito da prete ma non ancora era stato ordinato sacerdote. Fammi vedere questo tuo padre putativo. Che bel giovane. Lo sa che stai qui?
– No, non ancora, gli telefonerò domani, non ancora so se glielo dirò.
Il ritaglio di giornale successivo ritrae il suo battesimo, ci stanno Maria con un bimbo in braccio che sta piangendo, ai suoi lati Vincenzo e Ciro con le braccia sulle spalle della madre.
– Mi ha battezzato lui, è stato il suo primo battesimo.
A seguire c’erano foto vere, Maria con Carmine il braccio.
– L’avevo chiamata, l’avevo implorata di mandarmi delle foto ogni volta che poteva. Tirala fuori leggi cosa scriveva dietro: Alla mia cara mamma, Minù è un amore, mangia, dorme, cresce con regolarità, mi diverto molto con lui. La settimana prossima partiamo per Cortina, sarà la prima montagna.
Minù al mare: oggi ha preso il suo primo bagno di mare.
Minù cammina a pecorella, ha tirato giù una tovaglia con piatti e posate sopra!
Il primo compleanno di Minù, torta con candelina.
– Mi dondolava?
– Certo che ti dondolava
– Mi è rimasto qualcosa tra vago ricordo e sogno. Qualcuno mi dondolava sulla sedia, la stanza buia, il suono della sedia, la finestra socchiusa, una tenda leggera si gonfiava alla brezza. Mi ha allattato?
– Si ti ha allattato al seno.
– E’ che finisci col pensare che certe cose non siano successe anche a te.
Rosaria l’accarezzo sulla guancia, Carmine si ritrasse, il mento della donna tremò per un momento.
– Mi perdoni, non sono abituato.
Continuarono a sfogliare gli album, passarono ai primi, dal matrimonio di Rosaria e Giuseppe. Maria che andava a scuola, la prima comunione, sulla neve, al mare, ogni compleanno, le prime feste, la bici, gli sci, le recite scolastiche, crociera nel Dodecaneso, viaggio a Parigi, il periodo della guerra, Giuseppe che fa la campagna elettorale per la Repubblica, Giuseppe che si presenta alle elezioni comunali per il Partito Repubblicano Italiano, Giuseppe a braccetto con Ugo La Malfa, Giuseppe a una manifestazione contro la legge truffa, festa degli studenti dell’ultimo anno liceo classico Cutelli con Maria in primo piano che balla il buki, quaranta anni di storia della famiglia Cuffaro sullo sfondo della città di Catania e dell’Italia intera. Fotografie, ritagli di giornali ingialliti, caratteri di stampa non più in uso, la memoria di una generazione ferita dalla guerra, volti scarni, con la barba mal rasata, baffi, cappelli e coppole, posano distratti, posano consapevoli della storia che stanno realizzando, colti di sorpresa dall’obiettivo fotografico, lasciano un sorriso al futuro, o un pianto silenzioso prima di riprendere la vita, reggono la faccia con una mano, o hanno conserte le braccia ferme davanti ai carabinieri, scivolano su asini e cavalli, carri istoriati adorni di campanelli e fiori, occupano le terre di Lentini e Avola, marciano sulle strade calcinate di Sicilia, fermi sul cigli della strada al corteo di carri armati alleati, o al corteo dei nuovi potenti che arrivano da Roma, giocano a calcio su campi senza prato erboso, cacciano alle pendici dell’Etna cinghiali, pescano pesci spada nello stretto, assistono a corse automobilistiche nelle Madonie, Targa Florio, o sulle pendici dell’Etna come la corsa di Vincenzo, secondo con una macchina da ventesimo posto.
– Carmine è passato mezzogiorno, non è che me li stai consumando questi album?
– Non si preoccupi, poi le posso sempre rivedere no?
– Quando vuoi tesoro. Dicevo potremmo rimanere qui, oppure andare fuori a mangiare qualcosa, ti va? Ti porto in un ristorante sulla scogliera, ti piace il pesce?
– Si, va bene, andiamo sulla scogliera.
Rosaria tirò fuori la Giulietta dal garage e presero verso il mare direzione nord. Si fermarono davanti a uno stabilimento balneare, di quelli con le cabine un po’ sulla scogliera e un po’ su palafitte dentro le acque del mare, una di queste palafitte terminava con una rotonda, la sala ristorante. Sulla rena nera, come la scogliera, come tutte le pietre di Catania, ombrelloni, sdraio, odore di olio di cocco, dal ristorante odore di frittura di pesce, lungo la palafitta persone distese a prendere il sole, qualche ragazzo si tuffava facendo salire gli spruzzi d’acqua fin su, proteste di quelli distesi al sole, radioline a transistor rimandavano l’hit parade di Lelio Luttazzi, ancora al primo posto “29 settembre” di Battisti Mogol, cantano l’Equipe 84.
Linguine ai datteri di mare, spaghetti alle uova di riccio, frittura mista e insalata di pomodori.
– La conoscono tutti qui.
– D’estate ci venivamo ogni anno, come hai potuto vedere dai ritagli di giornale Giuseppe era molto conosciuto, e anche apprezzato per la sua onestà.
– Era molto bella.
– Chi io?
– Mia madre, Maria.
– Giovanotto io ero ancora più bella di mia figlia.
– E’ vero, ho notato.
– Ma sei sempre così serio? Rispondi seriamente anche a una battuta?
– Si, non sono spiritoso, non so fare battute, non so essere ironico, un disastro come intrattenitore.
– Questa potrebbe essere colpa dei preti. Non so se te ne sei accorto ma noi siamo un po’ mangiapreti. Mio nonno ha combattuto con Garibaldi alla spedizione dei Mille, e poi lo ha seguito anche in Aspromonte.
– Credo che non la penserebbe così se conoscesse Ciro.
– Ma come hai vissuto con lui?
– Sereno. Libero di stare per il paese quanto e come volevo, giocavo fino a tarda sera per i vicoli, mi sono divertito tanto. E ho letto, tutta la sua libreria. Quando vivevo a Napoli dovevo stare sempre dentro casa, al paese ho scoperto un mondo felice, semplice. Mi conoscevano tutti, mi volevano bene, potevo entrare in tutte le case, e stare con questo e con quello. Andavo da Ciro per dire stanotte dormo da Mario, Domani vado al mare con Franco. Il paese mi sembrava una specie di famiglia allargata. Ciro aveva molto da fare, diceva messa la mattina, poi andava a scuola, al ritorno faceva il giro dei malati, poi aveva il catechismo, i vari gruppi di Azione Cattolica, c’era sempre qualcuno da aiutare, chi per un ospedale, chi per una lettera da scrivere, liti, controversie da dirimere, di tutto e di più. Ho avuto due esempi di uomini, mio padre, che ho conosciuto parzialmente, in una fase di autodistruzione. Se ne stava intere giornate chiuso in casa senza far niente, neanche si lavava e si sbarbava, scuro in volto, in piedi dietro ai vetri della finestra. Lo ricordo così. Quando tornavo da scuola alzavo gli occhi in su, e lui stava in pigiama dietro il vetro della finestra. Ciro non sta un attimo fermo, la sua vita al servizio degli altri, viene prima il suo ufficio sacerdotale. Non gli ho mai sentito dire non posso. Andavo a letto che lui stava lavorando, mi svegliavo che già era andato a dire messa. Per la religione mi ha lasciato piena libertà. Non andavo in chiesa, non avevo fatto neanche la prima comunione. Ho deciso io, a dodici anni ho fatto la prima comunione, ho cominciato a seguire il culto, ho fatto il chierichetto, ho appreso a servir messa, ho seguito tutte le funzioni religiose, quelle mattutine e serali, quelle delle feste comandate, quelle della tradizione locale. A me piacerebbe essere come Ciro, fare del bene come lui.
– Vuoi diventare sacerdote?
– Mi piacerebbe, ma non credo di essere portato. Non basta voler fare del bene, devi aver fede, c’è Dio, io non sono tanto sicuro di Dio. Con il Concilio, la chiesa sta cambiando molto. Ci sono resistenze alla partecipazione attiva, resistenze di prelati, ma anche di fedeli. Secondo i tradizionalisti la chiesa ha perso di sacralità, di spiritualità per farsi più terrena, troppo terrena. Ciro ha avuto problemi per l’applicazione del Concilio Vaticano II, con i fedeli, con una parte del clero, con lo stesso vescovo. Gli rimproveravano di fare poca religione e troppa sociologia. Lo accusano di immischiarsi nella politica. Perché sorride?
– Mi piace come ti infervori. Nonostante noi sei cresciuto bene, con principi forti e sani. Mi fai sentire bene. Ma io potrò conoscere questo Ciro? Ti posso venire a trovare?
– Come no! Quando vuole. Anch’io verrò a Catania sa. Sempre che lei mi ci vuole. Prima però vorrei fare un viaggio in Venezuela e a Boston. Non so dove sia mio padre, ma non sarà difficile incontrarlo. Difficile sarà incontrare mia madre.
Non so cosa dirti. Per certi versi Maria è un mistero anche per me.
– Ce l’hai la patente?
– No
– Peccato, potevi guidare al posto mio. Adesso ho bisogno di riposare un po’. Tu cosa vuoi fare?
– Potrei vedere le foto
– Ancora?
– Si, le ho viste così di corsa.
Passò il pomeriggio tra gli album di foto e i ritagli di giornali. Lesse gli articoli che prima aveva saltato, si soffermò sulle didascalie, osservò tutti i minimi particolari di Maria, aveva orecchie piccole, anche il collo sembrava esile, l’arco degli occhi piuttosto rotondo, aveva un neo sotto il labbro inferiore. Sembrava una ragazza piena di risorse, di quelle che quando le incontri ti travolgono. Perché Vicenzo preferiva andare per locali notturni anziché stare con lei? E come fa una persona come lei a smarrirsi per due anni, perdere la voglia di vivere, spegnersi negandosi il cibo. In costume da bagno non era tanto minuta, bella, con una famiglia ricca e prestigiosa di una città provinciale, doveva essere molto corteggiata, poteva avere tutto e scelse Vincenzo. Una ribellione o solo passione? E che potenza doveva avere il loro sentire di quegli anni da travolgerli fino a quasi distruggere le loro vite?
Alzò gli occhi al salone, la casa aveva soffitti alti, il mobilio in parte antico e in parte moderno, la sala dove si trovava aveva un marmo grigio lucido, il tinello e la cucina maioliche, altro non aveva visto. Alle pareti quadri che ritraggono paesaggi etnei, un ritratto di un garibaldino con un orecchino a cerchio al lobo sinistro.
Rosaria entrò in quel momento, aveva un vestito a fiorellini bianchi su fondo blu, i capelli grigi a onda con fila laterale, un ombra di rossetto sulle labbra. La donna portava bene gli anni, il corpo leggermente appesantito stava su ancora ritto come di chi non ha dovuto sopportare fatica fisica, gli occhi della figlia, appena un po’ spenti, il sorriso alzava gli zigomi e strizzava gli occhi, allo stesso modo di Maria in una delle foto.
– Allora, chiedimi tutto. Avanti, quante domande hai da pormi?
– E’ il nonno garibaldino?
– Si. Poi aderì all’Internazionale socialista, contribuì alla nascita dei fasci siciliani, i primi sindacati italiani da cui poi nacque la CGL, oggi CGIL. Morì di vecchiaia durante il biennio rosso, morì convinto che stava per scoccare la rivoluzione anche in Italia. Per suo fortuna non ha vissuto la scissione di Livorno, e l’avvento del fascismo.
– Questa è la casa dove è nata?
– No, la casa dei miei genitori è ad Acireale, questa era della famiglia di Giuseppe. Alla sua morte ho deciso di abitare solo il primo piano, il secondo è affittato a un odontoiatra. Stai pensando che sono ricca? Si, lo sono abbastanza, ho sicuramente più di quello che ho bisogno. Altre domande?
– Ha lo stesso sorriso di sua figlia.
– Diciamo che lei ha preso dal mio, che è più corretto. Tu tendi a sminuire la mia importanza giovanotto! Gli anziani vanno adulati, ricordatelo, sono molto più narcisi dei giovani.
– Troppo simpatica.
– Ma ci pensi che potresti chiamarmi nonna e darmi del tu? Ecco adesso arrossisce. Ma come si deve fare con questo caruso che si chiude a riccio? Sai ballare?
– Eh?
– Sei mai andato a ballare?
– No.
– Eh ma questo è veramente grave. Le feste non le fanno dalla parti tue?
– Certo che le fanno, sono io che non ci vado.
– Minù la vita è fatta di molte cose, non di una sola, le devi provare tutte prima di sapere quelle che van bene per te.
L’abbracciò con calore, questa volta il caruso non si schernì e rispose all’abbraccio. Suonarono alla porta, erano gli amici.
– Meno male che siete arrivati. Non ne potevo più di stare con questo musone. Tra me e lui il vecchio è decisamente lui. Ma come si fa, alla sua età non è mai andato a ballare, non sa ballare. Ma che vita fate a Napoli. Voi non siete così vero? Voi stasera mi dovete portare a ballare.
– Antonio sa ballare, lui ci va sempre, dà pure delle feste.
– Meno male, allora tu sarai il mio cavaliere questa sera. Prima vi porto a un ristorante a Zafferano Etnea. qualcuno di voi ha la patente?
– Mattia ce l’ha.
– Ah, allora anche a Napoli è arrivata l’era moderna! Mattia, tu sarai il nostro autista. Prima a mangiare in un posto con Catania ai nostri piedi, poi vi porto in una discoteca, di quelle alla moda, con le luci psichedeliche, la musica rock, anche altri generi veramente. Antonio sarà il mio cavaliere
Siete pronti a lanciarvi nella vita?
I ragazzi disarmati dall’energia della donna, si rassegnarono a rispondere signorsì. Dopo la cena andarono davvero in discoteca. Lì Rosaria, che doveva ben sapere, presentò i quattro ad altri giovani, ex alunni suoi, nipoti di sue amiche. Rosaria ballò con Antonio qualche lento, i ragazzi si buttarono nella mischia dei balli singoli, Carmine no, lui era un pesce fuor d’acqua. Rosaria aveva presentato Carmine come il nipote ritrovato, il dono di Dio alla vecchia Sara di Abramo. Il ragazzo era stordito, soffocato, aveva nausea, uscì all’aria aperta, vomitò dietro un albero, si sentì più leggero, ma non rientrò in discoteca, la musica l’opprimeva. Ebbe l’impulso di scappare via. Sentì nostalgia per la tranquillità della vita prima della lettera del padre. Poteva sempre non partire alla ricerca della sua famiglia perduta, questo pensiero lo fece sentire meglio. Ma perché l’affetto di Rosaria l’opprimeva? Non sono abituato, si disse. E’ come il vino, lo devi assaggiare un po’ per volta se no n vuoi star male. Rimaneva in un fondo irraggiungibile una zavorra che lo tirava giù in mezzo alle gambe. Passeggiò lungo il viale di ulivi che dall’entrata portava al locale della discoteca. Dentro ballavano Paint it black, Rolling Stones.
……..
I see the girls walk by dressed in their summer clothes
I have to turn my head until my darkness goes
……..
I see a red door and I want it painted black
No colors anymore I want them to turn black
….
I wanna see it painted, painted black
Black as night, black as coal
I wanna see the sun blotted out from the sky
I wanna see it painted, painted, painted, painted black
Yeah!

La notte è piena di stelle, non sarà mai nera come il carbone. Rientrò nella musica, Rosaria parlava con dei giovani di politica, Mattia ballava con una ragazza rossa di capelli, Antonio beveva una bibita, Felice parlava con una ragazza dai capelli lunghi lisci e neri.
In macchina al ritorno Rosaria propose ai ragazzi un giro della Sicilia. Mattia guida la Giulietta, ed io penso a tutto il resto. Lo dovete a una povera vecchia che non esce da casa da tre anni.
Partirono la mattina dopo di buona ora. Smontarono la tenda e la lasciarono in deposito al campeggio, prima tappa Siracusa, la città di Pitagora, Archimede, il tiranno Dionisi, Piazza Armerina, Mattia guidava morbido lungo le curve della statale 417 bis per Gela, sotto Caltagirone prese a destra per Piazza. Rosaria era la navigatore, con la carta geografica in mano, un cappello di paglia in testa, i finestrini spalancati a prendere aria. Attraversarono territori di stoppie, la strada scendeva per una stretta valle tra colline gialle, un mare di giallo, i corvi e le cornacchie si davano da fare a razziare i chicchi di grano sfuggiti ai contadini, nei campi, lungo i cigli della strada, un beccare senza sosta. Dall’alto i falchi sceglievano le prede. Arrivarono a Piazza che erano le undici. Si sistemarono in tre camere di un albergo a due piani all’entrata del centro abitato.
Rosaria fece la professoressa con la scolaresca per presentare i mosaici della Villa del Casale. La vita dei romani ai tempi Diocleziano, l’importanza delle sponde africane del Mediterraneo, a Roma arrivavano non solo bestie circensi ma arte. I mosaici della villa sono di provenienza africana, se ne trovano di simili a Leptis Magna, la città natale dell’imperatore Settimio Severo, una specie di Pompei emersa quasi intatta dalla sabbia del deserto a poche decine di chilometri da Tripoli. L’impero aveva certamente il centro politico in Roma, ma il centro intorno a cui pulsava la vita, la cultura, l’arte era questo mare Mediterraneo. Per secoli ha unito anziché dividere, ha integrato, ha creato la prima civiltà multi etnica senza razzismo. Il razzismo è un fenomeno che si è affermato con le religioni monoteiste. I mosaici bizantini sono quest’arte ulteriormente affinatesi nell’impero di Bisanzio, ritorneranno a noi in un ciclo di rimandi di cui è piena la storia. Se andate a Ravenna potete vedere cosa saranno capaci di fare quattro secoli dopo. Peccato che i Turchi nella conquista di Bisanzio abbiano distrutto quasi tutto il patrimonio artistico iconografico. Le religioni monoteiste. Ecco cosa sono. Nell’antica Roma sorgevano uno a fianco all’altro i luoghi di culto latini, quelli egiziani, quelli dell’antica Persia, i mitrei, nessuna discriminazione.
Alla fine i ragazzi applaudirono la professoressa.
– Ecco così si fa, si deve saper osannare il potere. Vi siete guadagnati la cena.
Partirono per Agrigento la mattina dopo, si sistemarono a Capo Rossello, in una villetta sul mare di un amico di Rosaria. Il secondo giorno fu dedicato alla cultura greca, la Valle dei Templi di Agrigento ne fu l’occasione. La professoressa vicino ai ruderi del tempio a Zeus Olimpio, declamò alcuni versi dell’Eumenidi di Eschilo. Il tragico greco aveva visitato il tempio nell’ultima parte della sua vita, quando visse alla corte di Jerone, tiranno di Gela. La nascita della democrazia, ricordata da Eschilo nella terza tragedia dell’Orestea, fu presentata dalla professoressa come il trionfo del patriarcato democratico sul matriarcato ancestrale delle Erinni. Gli uomini, i maschi, non punirono il più tremendo dei delitti, l’assassinio della propria madre. Oreste viene assolto, dall’Aeropago, il tribunale costituito dai soli nobili, che ancora hanno potere sui fatti di sangue, lo assolvono con l’aiuto di Apollo e di Atena, gli dei emergenti. Il processo è un fatto giuridico rilevante, il voto lo è ancora di più, ma chi vota? I maschi, e cosa votano? che uccidere la madre, il più orrendo dei delitti di allora, non è punibile se lo si fa per salvare l’onore del patriarca. Da allora le donne non conteranno più nulla nella società ateniese. E chi sono i nuovi dei? Il solare proto Cristo Febo e l’algida Atene, assassina di Medusa. Gli dei ora stanno veramente in cielo, quelli della terra, delle profondità marine e terrestri, non servono più. L’uomo, maschio, ha alzato la testa, si rifà sul potere uterino. Tutti osannano nell’Orestea la nascita della democrazia e neanche una parola sulla nascita di una società che esclude le donne, peggio, che dice che ucciderle non è un delitto da punire.
I ragazzi erano un po’ confusi, non avevano mai sentito queste interpretazioni dei classici sui banchi della scuola appena terminata.
La Sicilia è Asia, Africa e Europa concentrate in un’isola. Qui si incontrano la Grecia Magna, Cartagine, Roma, i Bizantini, gli arabi Ammoyyadi* mussulmani, i Normanni**, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonese e i Borboni.
Rimasero due giorni al mare caldo che guarda l’Africa, poi partirono per Selinunte, da lì passarono Motya la fenicia, Erice che si affaccia sulle saline di Trapani, tela di Mondrian tessuta dall’uomo e dalla natura, Segesta con suo tempio nel paesaggio bucolico, Palermo, la Ziza, la Cubba, Il palazzo reale di Federico II, la cappella Palatina, La chiesa di San Giovanni degli Eremiti, il duomo di Monreale, infine il barocco di Noto, di Acireale, e della stessa Catania spagnola. Il viaggio che doveva durare una settimana si prolungò per due, ma ne valeva la pena.
Questa terra aspra come i suoi frutti è stata fecondata da tutti i popoli del mediterraneo e non solo. Attratti dal blu del mare e dal tepore che riscalda i dolori, dal nord calarono popoli guerrieri a conquistare il posto al sole della storia. Normanni, Svevi e Angioini si disputarono le antiche vestigia. I primi, uomini d’avventura, amarono la solidità degli antichi templi, desiderano fondere razze, religioni e arte, per questo si batterono contro tutti i potenti fino alla morte. I secondi rimasero vassalli e predoni, non furono amati, il popolo li cacciò.
Al tempo in cui a Bagdad si predicava la relatività persino del Sacro Corano, papi miseri e avidi guidavano in battaglia gli eserciti alla conquistare della sacra poltrona, un clero cialtrone e ignorante inventava dispute teologiche magari solo perché voleva conquistare un feudo amico. Miseri uomini dal titolo di papa trucidavano popoli interi, chiudevano a chiave Cristo nelle teche, si impaludavano d’oro e d’argento, spadroneggiavano l’umanità brandendo la paura.
Ai tempi in cui Bagdad anticipava di seicento anni Erasmo Da Rotterdam e Martin Lutero i pidocchiosi di Roma e Bisanzio cavavano gli occhi dalle teste dei santi, si tiravano addosso bolle di scomunica fino al ridicolo, come l’editto che vietava di disputare “se vietare o non vietare le sacre immagini”.
Parliamo proprio del tempo di Carlo il barbaro passato alla storia come Magno, quello che impedì all’Europa la sapienza, si proprio quello che si fece imperatore in Roma, quel borgo invaso da topi e circondato da rovine.
Invece Federico II mise assieme le geometrie arabe, le ieratiche icone di Bisanzio e il romanico cattolico. Il papato lo scomunicò, chiamò a raccolta tutti i cristiani di occidente per abbattere il tremendo pericolo che egli rappresentava per il potere palale. Dante lo capì e gli tributò onori.

Sicilia,
giardino di palme e di conci
le arance ti indorano il volto
il cielo è solcato da anime
che sembrano stelle

Sicilia,
quand’eri sana Alcamo incantava
tremavano gli infanti sulle are di Motya
crudi tagliavano i versi come spade
o dolci le parole profumavano i balconi

Sicilia
alle tue porte il viandante toglie i calzari
intona laudi a ogni pietra del selciato
riposa all’ombra dei cortili
chiede pane all’uscio delle case

Sicilia
terra ferrigna attaccata alle ossa
ci battono i tamburi le paranze
le battezzano reliquie i chierici
ci sparano lupare i mafiosi

Sicilia
pidocchio senza lacrime
fai solo opera di pupi
rubacchi il tempo di Etneo
che dorme per non sprofondarti negli abissi

Sicilia
ti lasci impalare manco fossi cristiana

Questa l’ho scritta io. Da quando sono in pensione mi diletto di poesiole.

Il viaggio fu più importante dei cinque anni di liceo messi assieme. Rosaria sapeva tessere insieme eventi, visioni del mondo, arte, religione, stazionando dall’origine della storia ai giorni d’oggi, dall’Europa all’Africa e all’Asia. Con lei la storia acquistava senso, apriva squarci interpretativi sul presente, diventava materia viva e palpitante.
I quattro napoletani, partiti con l’idea di una Sicilia terra povera e culturalmente arretrata, si trovarono di fronte a una qualità alta di cui mai prima avevano avuto dimostrazione.
– E’ l’amore che ti fa trovare le parole giuste, ti pone domande ed esige ricerca di risposte non di comodo. E’ solo un atto d’amore. Rispose Rosaria all’ammirazione dei quattro ragazzi affascinati dall’affabulazione della professoressa siciliana in pensione.

*Ziyadat Allah, che apparteneva al già citato regno dei Aghlabiti, dove operava il saggio Asad  Omayyadi di Spagna Marocco.
**Tancredi, i figli Roberto e Guglielmo, poi Ruggiero, Guglielmo II, Federico II