Partì per Boston un sabato, era il 2 settembre 1967.
Roma New York in aereo, NY Boston in bus, linea Greyhound.
Vi arrivò all’alba di lunedì dopo aver viaggiato tutta la notte. Faceva freddo, pioveva, cielo vasto carico di nuvole. Tirò fuori il giaccone pesante, lo indossò, all’uscita dalla stazione dei bus degli uomini di colore vendevano ombrelli, ne comprò uno, trovò l’ostello, l’YMCA Beantown di Friend street, nel cuore del centro storico della città. Attese le nove per l’apertura dell’accettazione. Fece il checkin, salì in camera, si buttò sul letto e si addormentò. Si svegliò che era pomeriggio, aveva bucato la telefonata del lunch, doveva aspettare la sera. Uscì in strada che ancora pioveva, il cielo si era scurito, vide un carretto con una fila di persone in attesa di panini. Frank 30 Cent, Coca 15. Ne prese uno con crauti e senape piccante, da bere, una Coca. Il panino durò poco, si rimise in fila per un altro. Esplorò il vicinato, si ritrovò lungo il perimetro di un parco pubblico, c’erano cabine telefoniche, decise di chiamare. Rispose Maria.
– Ti aspettavo a mezzo giorno.
– Mi sono addormentato, mi sono svegliato alle tre del pomeriggio. Però ce l’ho fatta ad arrivare, ho preso la camera, ho mangiato i miei primi due hot dog.
– Avevo organizzato tutto un programma!
– Si può fare un’altra volta.
– Non è la stessa cosa però, pazienza. Facciamo così, ti vengo a prendere alle sette. Fatti trovare davanti l’YMCA.
La pioggia allentò, camminò senza meta, c’era un ufficio di informazioni turistiche, davano mappe della città e depliant di eventi e servizi, prese tutto quello che poteva. Dalla mappa risultava che il parco si chiamava Boston Common. Calava la sera, le luci delle strade si accesero, sulle panchine lungo il parco tanti giovani, quasi una folla a Park Plaza. Più che un luogo di incontro sembrava un accampamento. Capelli e barbe fluenti, jeans e montgomery bagnati, fumavano, suonavano chitarre, chiedevano soldi ai passanti, facevano comizi, una coppia mimava un evento complicato da decifrare, un sassofonista suonava jazz, c’era anche un trio di archi con musica da camera, coppie si baciavano un po’ ovunque. Rifece la strada a ritroso per farsi trovare davanti l’ostello, non furono proprio le stesse vie, cercava punti di riferimento, il buio li aveva nascosti, finì alla North Station, dove era arrivato, praticamente a qualche centinaio di metri dall’ostello. Davanti la porta di ingresso c’era un gruppo.
– Minù?
– Si voltò, non capiva da dove fosse venuta la voce. Minù sei tu?
– Era proprio Maria. Aveva jeans a zampa d’elefante e cavallo corto, una maglietta attillata arancione, capelli lisci corti, con una semiriga al centro, larghi occhiali leggeri. Al buio l’aveva scambiata per una ragazza del gruppo di giovani che sostava davanti al Beantown. Lo abbracciò scotendolo.
– Ma non mi hai riconosciuta?
– Ero concentrato a osservare le auto, pensavo arrivassi in macchina.
– Andiamo.
La macchina l’aveva fermata venti metri prima, salirono. Gli chiese del viaggio, se aveva avuto difficoltà a prendere il bus a New York, a trovare l’ostello, con la lingua, con le persone, con il personale dell’ostello.
Si fermarono non lontano, in Union street, entrarono in un ristorante specializzato in pesce fresco, Union oyster house.
Maria aveva conservato il musetto prepotente di ragazza, i lineamenti delicati creavano uno strano miscuglio con le labbra decise e gli occhi acuti, il volto appariva concentrato, pronto e determinato a partire. Era ancora la ragazza dai capelli corti che guarda Vicenzo prendere il trofeo dalle mani del padre. Il corpo giovanile, snello sinuoso, gli occhiali larghi, con una montatura quasi assente, dilatavano la presenza degli occhi, erano questi e le labbra che avanzavano verso la meta.
Si erano scritti poche righe, lui aveva comunicato la necessità di conoscerla, lei la disponibilità a incontrarlo. Lui aveva detto parto a settembre, per favore indicami qualche posto economico dove posso alloggiare, lei aveva spedito l’elenco degli ostelli con indirizzo e numero di telefono, lui una foto. Avevano rimandato le parole all’incontro, ed ora erano davanti a mezza aragosta bollita e imburrata, parlavano di cibo, della baia, dei Kennedy, di Bob che forse si presenterà alle elezioni presidenziali. Nelle pause della conversazione si introducevano piccoli squarci, si aprivano ogni volta che gli occhi si posavano nel piatto per scegliere il boccone. Maria scoprì che il muso era proprio il suo, Carmine notò che lei cominciava a parlare facendo partire una mano dalla bocca verso di lui, Maria riconobbe gli occhi del bambino che aveva lasciato.
Li rialzavano per intrattenere i pensieri con argomenti neutri, l’Italia sta vivendo un momento di crescita, auto, motorini, vespe, le città diventano metropoli, ora si costruisce la seconda casa sulle coste e sulle montagne, il papa sta realizzando le novità del Concilio Vaticano II, l’america non ha ancora superato l’uccisione di Kennedy, nelle università c’è molta contestazione alla guerra in Vietnam.
– E da quando porti questi occhiali?
– Questi?
– Si gli occhiali.
– Da quando sono in america, perché?
– Nelle le foto che ho visto da Rosaria non li avevi.
– E tu hai mai fatto una visita oculistica?
– No, perché?
– Hai questi occhi strizzati, forse ti sforzi per vedere, forse anche tu hai bisogno di occhiali.
– Se è per questo anche tu, non si capisce se sei concentrata o, nonostante gli occhiali, non ci vedi.
– Sarà un difetto di famiglia.
– Uhm. Un’altra cosa che ti devo dire subito: non sembri una madre di tre figli, soprattutto non può essere che tu sia madre a me.
– Perché non sono grossa e grassa come dovrebbero essere le mamme? Mimò faccia gonfia, ventre gonfio, fianchi larghi.
– Sembri una ragazza, ti avevo scambiata per una delle ragazze che stavano davanti all’ostello. Potremmo sembrare della stessa età io e te.
– Grazie al mio sapiente trucco e alla notte. Quando ci incontreremo di giorno avrai un’altra visione.
A dire il vero sono impressionata anch’io, dalla foto non si capiva che hai già un po’ di barba, e neanche quanto sei grosso. Ho anche io dei dubbi, come avrò fatto a generare un mostro come te? Scommetto che le ragazze ti corrono appresso.
– Eh!
– Mamma mi ha detto che non sai ballare.
– Si non mi piace, non mi piacciono le feste.
– Neanche le ragazze?
– Che c’entra! Tu com’eri alla mia età?
– Sfrontata, non mi fermavo davanti a niente.
– Non immaginavo avessi questo leggero accento siciliano. Ti ho sempre pensata napoletana.
– Anche Vincenzo era sfrontato, di più, lui era pazzo. Ciro come sta?
– Ha problemi con la curia e col sindaco del paese. Il vescovo ha minacciato una sospensione, o un trasferimento di parrocchia, ma lui non molla.
– Me ne aveva accennato al telefono, non ci sono novità però.
– No, è come fosse sotto osservazione, gli hanno chiesto di chiudere il centro pastorale che ha creato, dicono che basta l’Azione Cattolica.
– Minù io ho avuto un’adolescenza fantastica, non c’è nulla che non abbia fatto.
– Neanche a me è mancato nulla, se è questo che ti preoccupa. Se stai pensando alle feste e al ballo, sono scelte mie. Non mi è stato proibito nulla, sono abituato a scegliere. Il giorno che sono entrato nella canonica Ciro ha voluto che io scegliessi il colore della mia stanza, i mobili che ci volevo mettere, e dopo i libri che volevo leggere, mai leggi questo, o fai quest’altro che è buon per te.
– Eh bravo Ciro. E sei un po’ prete pure tu?
– Ciro è una bella persona, è facile desiderare di essere come lui. Ma non sono lui, non ho la sua fede.
– Sbaglio o anche lui non ce l’aveva quando entrò in seminario, e poi invece prete c’è diventato davvero.
– Sì, ti ricordi bene.
– Allora Carmine Montella, la vorrei condurre a passeggiare nel porto antico, dove cominciò la rivoluzione americana!
Passeggiarono sferzati da un vento gelido del nord. Maria infilò il braccio in quello del figlio, qualche stella appariva tra le nuvole che correvano nel cielo, le acque nere della baia spruzzavano leggermente le banchine, un gruppo di orientali procedeva composto, più in là dei ragazzi parlavano animatamente con le bottiglie di birra in mano, altri orientali vendevano radioline a transistor, accendini e piccoli giocattoli.
– Come sei finita in questo posto così freddo?
– Con un viaggio. Stavo viaggiando, mi ero smarrita tre anni prima, non sapevo cosa fare della mia vita. Prima ero ferma fisicamente e la mia mente vagava altrove, poi cominciai a viaggiare col corpo e la mente non lo seguiva. Mi ritrovai ad Harvard, una delle più prestigiose università americane, costruzioni in mattoni rossi popolate di giovani che si spostavano alacremente in tutte le direzioni, tutti sapevano dove andare, cosa fare, erano allegri, pieni di vita. Stavo camminando tra prati e grandi alberi di uno degli edifici quando all’improvviso desiderai studiare lì, o lavorare lì. Era la prima volta che mi accadeva dopo tre anni, o forse quattro. Non lo mollai quel desiderio, tornai in Italia, feci tutte le pratiche burocratiche, e, anche con l’aiuto di mio padre presso l’ambasciata a Roma, riuscì a inserirmi a Boston, non ad Harvard ma alla Boston University, mi laureai nel 1958 in belle arti, poi un master sull’arte barocca italiana, ed ora ho un mio corso di studi italiani alla Brandeis University.
Maria lo portò in un pub, un trio suonava jazz, avvolti in una cappa di fumo gli avventori bevevano al banco, ai tavoli, appoggiati ai muri, alcuni conversavano, i più vicini al trio ascoltavano la musica, altri guardavano il boccale avanti a se.
Presero una birra anche loro, si infilarono a un tavolo dove c’erano altri due ragazzi, era difficile parlare, lei riuscì a comunicare il desiderio di far conoscere la sua famiglia, lo invitò a cena per la sera dopo.
All’uscita lui confessò di non capire quella musica, lei confessò di averlo intuito, lui espresse la paura che lei si fosse annoiata.
Ma non ci dobbiamo mica fidanzare, rispose lei ridendo.
Jimmy Johanson, Jimmy junior, semplicemente JJ, Maryrose ovvero Mirò, cinquanta, sei e cinque anni, lui alto, secco, un po’ curvo in avanti, capelli lisci biondi radi, fila a sinistra, avviati all’indietro, Junior il padre da piccolo, Maryrose, la madre da piccola, con i capelli biondi però.
La casa non era al centro ma in periferia, due piani in legno, giardino, prato, angolo di aceri dietro, un platano avanti e tanti cespugli di rose. Pioveva, Jimmy faceva barbecue sotto una tettoia, i bambini giocavano a tirare palle contro il muro della stessa tettoia, Maria bolliva pannocchie in cucina. I bambini salutarono in italiano, Jimmy lo capiva e lo parlava abbastanza bene. Lui teneva corsi di arte rinascimentale alla Boston University, Maria lo aveva conosciuto frequentando il suo corso da studentessa. A quei tempi lui era sposato con una newyorchese.
Furono tutti carini. Jimmy si informò degli gli studi compiuti e di quelli che aveva intenzione di fare.
– Uh, gli stessi di Maria, concluse.
Maria gli proposte la conoscenza di Boston per il fine settimana poi aggiunse: certo mi piacerebbe portarti in giro per tutta l’america, magari andare a sud, da Boston fino a News Orleans, o una cavalcata fino al pacifico in macchina, ci vogliono due settimane per fare un giro così, ma non è possibile, qui siamo in piena attività didattica, è difficile prendere ferie.
– Carmine lo sai che in america ci sono giovani che vanno dall’Atlantico al Pacifico, giusto per andare da una parte all’altra del continente? Maria hanno tradotto On the road in italiano?
– Come no, lo hanno pubblicato nel 59. Quando andammo in Italia nel 62 lo comprai, deve essere in biblioteca.
Te lo vado a prendere Carmine.
Tornò col libro. Prova a leggerlo.
Carmine lo sfogliò, prese a leggere la prefazione di Fernanda Pivano. Concluse che lo avrebbe letto, la prefazione conteneva troppe cose che lui non conosceva.
Jimmy sorrise soddisfatto, Maria alzò una V al cielo, i bambini non capirono ma applaudirono.
– Carmine, io voglio, desidero che tu venga ad abitare qui. Questa casa è la tua casa. Tu sei il benvenuto.
Abbiamo già preparato la tua stanza al piano di sopra. Naturalmente se a te fa piacere stare qui da noi. Se invece preferisci stare all’YMCA qui puoi venire quando vuoi, anche se non ci siamo. La porta della cucina è sempre aperta. Su questa mappa ho segnato il percorso, il treno e il bus che devi prendere per venire qui.
– Tu cosa pensi? Carmine a Maria
– Le stesse cose di Jimmy. Senza nessuna forzatura Minù. Tu sai che ti vorremmo qui con noi, decidi e ci fai sapere. Per esempio adesso se tu rimanessi a dormire qui, io mi risparmierei di uscire a quest’ora, staremmo al caldo a parlare, leggere, vedere filmati, foto, libri fotografici, libri d’arte. Domani con calma decidi, se vuoi rimanere vai a prendere il bagaglio, e se no, va bene lo stesso.
– Sinceramente neanche a me va di farmi quest’ora di macchina.
La camera dava sugli aceri, letto una piazza e mezzo, colori chiari, puffi, greche, chiffon, lacche. Confortevole.
Si svegliò che erano usciti tutti, un biglietto proponeva un lunch alle 12,00 davanti al campus universitario, seguivano numeri di autobus, nome fermate, ecc.. firmato Maria.
Prese del caffè ancora caldo dalla brocca di vetro della caffettiera, dei biscotti da un vassoio sul tavolo e girò per casa, entrò nello studio di Jimmy, poi in quello di Maria, sulla scrivania cataste di libri, fogli sparsi, foto in cornici di legno, di Jimmy che l’abbraccia teneramente dalle spalle, di J.J. che corre dietro una palla, di Maryrose in altalena, di Carmine che guarda l’obiettivo da un seggiolone, una mano protesa verso il fotografo, la bocca spalancata in un grido eccitato, due denti sotto e due sopra appena accennati. Alle pareti foto della Sicilia, l’Etna in eruzione, pescatori che tirano le reti sulla spiaggia, barconi a vela in navigazione nello stretto di Messina, la festa della candelora di Sant’Agata, Vincenzo che sta ritirando il premio dalle mani di Giuseppe con Maria nello sfondo. La stessa foto degli album di Rosaria.
C’erano due librerie, una conteneva libri in lingua italiana, l’altra di lingua inglese.
Tornò in cucina, mise il bicchiere nel lavandino, prese il tascapane ed uscì.
Maria l’attendeva sulla scala di ingresso con un vassoio in mano. Un bacio sulla guancia, gli dice di seguirlo. Entrano nell’edificio ed escono in un vasto prato disseminato di grandi alberi, studenti intenti alle attività ricreative e sportive, decidono di andare al centro del prato a prendere il sole.
Aprì le vaschette, c’era cibo cinese, Maria presentò il contenuto, lui assaggiò, lo trovò gustoso.
– Sono entrato nel tuo studio, ho visto le foto, anche la mia e quella di Vincenzo.
– Embè?
– Non mi aspettavo di trovarmi sulla tua scrivania.
– Ti ho abbandonato ma non dimenticato. Quella foto è stata sempre con me. Per anni mi sono interrogata sulla mia fuga, non quella per salvare la mia vita, la seconda, quando ho cominciato a viaggiare anziché cercarti. Ho capito che non ero veramente guarita.
Vorrei farti visitare l’MFA, il museo di belle arti di Boston, ti interessa?
– Va bene.
– Oh, non fai mica complimenti che dici sempre di si?
– Non conosco l’america. Se tu che vivi qui mi proponi un itinerario a me sta bene. E poi, sono venuto qui per te, qualsiasi cosa mi proponi mi sta bene. Basta che ci sei tu.
Si dedicarono al cibo cinese, mangiarono in silenzio.
– Grazie Minù, per aver avuto la forza di cercarmi.
– Lui le sorrise e abbassò il capo, come per scrutare i fili d’erba del prato.
– Stamani mentre stavo nel tuo studio mi dicevo, è tua madre quella giovane donna? quella bella donna è tua madre? Me ne devo convincere. Mi piace la tua famiglia, Jimmy, i tuoi figli, la tua casa. Quello che mi sta accadendo è molto accogliente, ma non so cos’è. E’ aver trovato la mamma? Mi succede perché sei mia madre, perché sei tu, Maria Cuffaro? Mi sarebbe successo per qualsiasi altra donna?
– Troppe domande assieme non trovano risposte. La cosa migliore è rinunciare alle domande e vivere. Le risposte verranno da sole, e quando saranno pronte. Allora domani mattina alle nove visita dell’MFA, attenzione! Ci saranno i miei studenti. Terrò la mia lezione nel museo.
– Ma io non vi capisco quando parlate inglese.
– Dimentichi che insegno italiano. Le opere le presento in italiano.
– Allora va bene. Così dopo le lezioni della signora Rosaria, che sarebbe mia nonna, una lezione di storia dell’arte da sua figlia, anche lei professoressa, mia professoressa madre.
– Devo rientrare, hai deciso dove abitare?
– Me lo chiedi pure? A casa tua!
– Allora fatti trovare alle cinque e mezza pronto davanti all’ostello.
Ah, ho deciso di imparare questo inglese sul serio. Male che mi va torno a casa con un lingua in più, non ti pare.
Gli prese le orecchie e lo ciondolò. Asino! Gli abbassò la testa e lo baciò su tutte e due le guance. Lui le strinse le spalle.
Si trasferì nella stanza degli aceri. JJ e Mirò portarono delle rose dal giardino, e un libro di esercizi di italiano. Cominciò uno scambio linguistico.
Alla lezione Maria lo presentò come ospite italiano. Si diressero direttamente alle sale dedicate alla pittura italiana. Maria cominciò dal duecento per arrivare al ventesimo secolo. Non era possibile una presentazione completa perché al museo mancavano opere di Simone Martini, Giotto, Beato Angelico, Duccio da Buoninsegna, Botticelli, Raffaello, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio, ….. Ma c’erano pur sempre Mantegna, Tiziano, Veronese, Tintoretto, Canaletto, Giordano, Lippo, Lotto, Tiepolo, Caracci, Correggio, Signorelli, Rosso Fiorentino, … Morandi, ….
Maria presentava un’opera per autore, la più significativa, menzionava la scuola di provenienza, creava i collegamenti con i grandi maestri che mancavano. Gli studenti ascoltavano, qualcuno era munito di registratore portatile, altri prendevano appunti, qualche domanda in italiano stentato.
Il museo era enorme, c’erano testimonianze artistiche di tutti i continenti e di tutte le epoche, loro avevano visitato solo la pittura italiana. Nel museo c’erano studenti di tutte le età, a cominciare dalla scuola elementare. Usciti sul prato consumarono la colazione. Alcuni studenti circondarono Carmine, gli chiesero se era venuto in america per studiare, se cercava lavoro, da che città veniva, che studi faceva, se aveva intenzione di visitare anche altri stati americani. Una ragazza sfacciata gli chiese: bell’italiano cosa fai stasera? Lui arrossì, gli altri risero. Vuoi uscire con noi? Lui balbettò che non conosceva l’inglese.
– Come vedi noi parliamo italiano. Ripeto la domanda: Vuoi uscire con noi stasera?
– Si, va bene.
– Ohhh!
Lo andarono a prendere dopo cena, alle sette di sera. Alla guida c’era la ragazza che lo aveva invitato, dietro un’altra coppia. Lo portarono a un drivein, videro un film, The graduate, con Anne Brancoft, Dustin Hoffman e Katharine Ross. Jenny, la ragazza alla guida, ogni tanto gli forniva qualche spiegazione in italiano, la storia non era complicata, Carmine la seguì abbastanza fino al lieto fine. Dopo il film si trasferirono in un pub con musica irlandese. La ragazza lo corteggiava apertamente, Carmine era imbarazzato, cercava di sviare l’attenzione, poneva domande su tutto, lei sembrò arrendersi. Era bella, brillante, accogliente, ma la sua sfrontatezza lo intimoriva, si sentiva minacciato, e poi era la prima volta ad essere circondato da insistente attenzione da parte di una ragazza.
Tornò tardi, gli altri dormivano, e quando lui si svegliò loro erano già usciti. Giù c’era un biglietto. Se lo leggi in tempo vieni per il lunch, ti aspetto sul prato. Maria.
Erano già le 11,30 non sarebbe arrivato in tempo. Bevve del succo di arancia, prese On the road, uscì sul prato, si accomodò su una sdraio e si mise a leggere. Il telefono squillò un paio di volte, la seconda provò a rispondere ma non arrivò in tempo.
Al ritorno dal lavoro Maria gli consegnò un altro biglietto. Era Jenny che lo invitava a una festa di compleanno per sabato sera. Ti fa la corte vero?
– Ieri mi è stata addosso tutta la sera. Sarò sembrato scortese, o un deficiente, forse stanno ridendo di me, ma io ero imbarazzato, non sapevo cosa fare.
– Non sei mai stato con una ragazza.
– No
– Ma te ne piace una?
– Beh, si, ci sarebbe una, ma lei non lo sa, la conosco solo di vista. L’unica donna che conosco veramente è Angelina, accudisce la canonica, ha più di settanta anni. Ho tre amici a cui sono molto legato, sono imbranati come me. Due vanno a qualche festa, ma anche loro non hanno la ragazza. A scuola sempre in classi maschili. L’amore lo conosco dai romanzi e dalle poesie. La prima donna con cui entro in contatto veramente sei tu.
– Forse è venuto il momento e tu non te ne stai accorgendo. Alla tua età io stavo per mettere al mondo te. Prima di Vincenzo avevo avuto due storie importanti, più tanti fatterelli di quelli che partono dalle scuole elementari e finiscono al liceo. Ciro non ti hai parlato di sesso, di rapporto con l’altro sesso, di queste cose? Lui arrossì.
– No, ne’ io ho mai posto domande. Qualche volta abbiamo assistito a scene sentimentali per televisione, anche un po’ spinte, io non vedevo l’ora che finissero, ero infastidito. Forse era imbarazzante per tutti e due, Ciro non è mai intervenuto.
– Dunque io avrei un figlio che non sa come è fatta una donna, non sa cosa fa una donna assieme a un uomo, meglio un uomo con una donna. Non sa cosa è un bacio.
– Non esageriamo.
– Allora non sa baciare, non sa ballare, non sa abbracciare, naturalmente vergine.
– Ecco, vallo a dire a una come Jenny, o a una come te. Sai le risate.
– Non sai neanche se ti piacciono le donne. Lo sai si, che ci sono uomini che preferiscono accoppiarsi con uomini e donne con donne?
– Si, lo so.
– Allora che fai ci vai alla festa?
– Tu che dici?
– Minù!!
– Sono impreparato
– Non è mica un esame.
– E’ un esame! E non so come comportarmi.
– Sai almeno ballare un lento, lo slow?
– No.
– Andiamo dentro, metto qualcosa sui fornelli e dopo ti insegno.
Arrivarono i bambini con lo scuolabus, lezione di italiano, gridarono. Arrivò anche Jimmy. Maria lo mise a preparare la cena.
– Minù, tu chiami Jenny per dire che vai.
Ritornò dalla telefonata, “mi vengono a prendere alle otto”.
Maria mise sul piatto un LP con diversi lenti. Cominciò ad impostare la presa del partner, l’uomo prende ai fianchi, la donna mette le braccia sulle spalle, o più confidenziale al collo. A secondo del rapporto si balla che i corpi non si toccano fino a stringersi appassionatamente. A volte si comincia la serata tenendosi larghi e si finisce avvinghiati. Lo invitava ad essere sciolto, non sei un palo a cui la donna si tiene, allenta i muscoli, lasciati andare al ritmo, dondolati, immagina di dondolarti al ritmo della musica. Gli scuoteva i fianchi, il collo, le spalle, gli dava delle ginocchiate alle gambe per allentare la tensione. Lo strinse da fargli mancare il respiro, ti può capitare sai, che una ti tenga così, e tu non puoi fermarti in mezzo alla pista come hai fatto con me, sarebbe anche peggio, ….. alla fine dell’LP Carmine sapeva portare una donna e sapeva muoversi seguendo il ritmo, un po’ rigido ma poteva ballare uno slow.
Il rock’n’roll? Lo shake? Il rhythm’n’Blues?
“Aiuto!!!! Jimmy, aiuto, non posso apprendere dieci anni di balli in un’ora”.
Jimmy arrivò dalla cucina mise sul piatto un 45 giri di James Brown, Papa’s got a brand new bag. Ballò con Maria, I got you, invitò Carmine a muoversi come facevano loro due. Sono goffo!
Good Vibrations Beach Boys, shake. Ci presero gusto, misero sul piatto Elvis Presley, rock’n’roll, All Fruits, presero a girare per la sala, Hound Dog, scatenati, JJ, Mirò e Carmine battevano le mani, I’m talkin’ about you Chuck Barry, Lucilla Little Richard.
Jimmy corse in cucina a spegnere i fornelli.
La famiglia Johanson decise che avrebbe dato lezioni di inglese, ballo, e di educazione sentimentale!
Jenny, poteva definirsi la tipica ragazza americana: bionda, capelli ondulati lunghi fila laterale, corpo atletico, spalle da piscina, sorriso pronto, denti bianchi, allineati e regolari, efficiente, propositiva, volitiva, il tutto dentro un jeans e una maglietta. Aveva diciannove anni come lui, ma stava già al terzo anno di università. Jenny questa volta venne a prendere Carmine da sola.
La casa della festa era molto simile a quella di Maria, il prato dietro era più grande e conteneva una piscina.
I genitori della festeggiata erano andati fuori lasciando la casa alla gestione della figlia e dei suoi amici. C’era un buffet sotto un gazebo e un altro nella sala grande a pian terreno. i ragazzi avevano in mano bottiglie di birra, coca, aranciata, e bicchieri con liquidi colorati prelevati con il mestolo dai grandi contenitori dei buffet.
Colleen, la festeggiata, era filiforme, occhi azzurri, casco biondo, vestiva un tailleur celeste, camicetta rosa aperta, tacchi a spillo in tinta, rossetto del colore della camicetta, una croce appesa a un filo d’oro stretto al collo lungo e leggermente arcuato a sinistra. Saliva e scendeva la scala che dava sul prato e la piscina come una mannequin a una sfilata, porgeva la mano come i convenuti dovessero baciarla, usava spesso espressioni francesi.
Jenny disse che studiava per diventare stilista di moda, passava le vacanze estive in Francia per la lingua e per apprendere il buon gusto.
Sotto un ceppo di aceri ai lati della piscina bivaccava un gruppo capelli lunghi, jeans, maglietta e gilet di pelle, si passavano joint. Al lato opposto, in piedi sul bordo della piscina, ragazzi in vestito scuro, camicia bianca, cravatta stretta, capelli corti. Tra la casa e la piscina, ai tavoli sedevano tipologie diverse. Dalle casse poste alle finestre arrivava musica organizzata a grappoli di titoli dello stesso cantante o gruppo.
Sui tavoli un calice di vetro con due rose, fiore dei nati a settembre.
Qualche coppia accennava un ballo sul prato.
Preoccupato di mettere le cose in chiaro Carmine confessò a Jenny che quella era la sua prima festa, che non sapeva ballare.
“Scusami anche per l’altra sera, sarò apparso scortese, ma quella era la prima volta che mi trovavo con un ragazza”.
Jenny sgranò gli occhi, lui raccontò la sua vita in canonica, la scuola, il paese, Ciro.
Giurami che non dirai a nessuno quello che sto per dirti.
Lei incrociò le dita e giurò.
“Sono in America per conoscere mia madre, Maria Johanson è mia madre”.
– Ma questo lo sappiamo. Mrs Johanson l’ha detto il giorno prima della visita all’MFA.
– Ah! Oh! ma mi ha presentato come ospite.
– Per non metterti in imbarazzo.
– Magari tu vieni a prendermi su proposta di Mrs Johanson. Mi hai avvicinato perché lei ha chiesto compagnia per il figlio imbranato venuto dall’Italia.
– No. Ti ho avvicinato perché volevo conoscere un ragazzo italiano, anche per esercitarmi con la lingua. Io l’italiano lo voglio imparare proprio bene, mi serve per lo studio dell’arte. Tua madre non c’entra.
Erano seduti sull’ultimo scalino prima della piscina, Carmine assorto, Jenny fumava, un ragazzo la invitò a ballare, accettò. Mentre lei ballava si avvicinò uno dei ragazzi del gruppo dei capelloni, si chiamava Giorgio, era di Milano, studiava al MIT, terzo anno di calcolo automatico, c’era arrivato vincendo una borsa di studio promossa dalla Olivetti di Ivrea, lo invitò al suo gruppo sotto gli aceri, Carmine accettò, c’era un altro italiano di Genova, il gruppo si completava con un tedesco di Amburgo, un francese di Lione e due di Pittsburgh.
Gli passarono il fumo, Carmine rifiutò. Loro erano alla festa perché amici del francese, a sua volta amico di Colleen. Finite le presentazioni, presero a parlare di musica, della guerra in Indocina, della leva obbligatoria che costringeva i giovani a partire per il Vietnam, dei giovani che erano andati in galera per non andare in guerra.
Arrivò Jenny, si presentò e sedette a fianco di Carmine, partecipò al giro di fumo del gruppo, venne caracollando sui tacchi anche Colleen, disse al gruppo di non sballarsi troppo presto, che era previsto un gran finale per tutti. Baciò sulle labbra Sebastien e andò via.
As Tears Go By, Carmine invitò Jenny a ballare, questo lo posso ballare anche io, disse. Maria qualche ora fa mi ha fatto vedere come si conduce una donna mentre si balla. Sul bordo di cotto della piscina Jenny si avvicinò con discrezione, Carmine le cinse la vita, lei poggiò le braccia sulle sue spalle, e la malinconia del giorno che muore accompagnò quel primo ballo.
Andarono al gazebo a prendere una bevanda, Jenny lo invitò al ballo successivo, Heart Of Stone, sempre i Rolling Stones. Questa volta si avvicinò un po’ di più, i movimenti marcati del blues mettevano a contatto i due ballerini, tocchi leggeri delle gambe, del seno, delle ginocchia, Carmine ne ebbe un accelerazione del battito cardiaco e una vampata di calore fino alle radici dei capelli, più la perdita del ritmo. Alla fine del ballo Jenny lo strinse e lo baciò su una guancia. Good Times, Bad Times fu il terzo ballo, lei poggio la testa sulla spalla, lui ne sentiva il cuore battere e confondersi col suo. Stordito alla fine rimase fermo sul bordo della piscina, aspettava l’inizio del prossimo, ma si trattava di Satisfaction. Si allontanò mentre lei prese a ballare con grande energia, i capelli creavano onde nello spazio notturno, Get Off My Cloud, Mother’s Little Helper, 19th Nervous Breakdown, Let’s Spend The Night Together, ancora, ancora, e ancora, lei a danzare e lui a non togliergli gli occhi di dosso. Tornò sudata e soddisfatta.
– Ho sete, tanta sete.
– Cosa vuoi bere?
– Qualsiasi cosa, acqua, aranciata, tanta. Tornò con due bicchieri colmi di aranciata. Lei ne vuotò subito uno e prese a sorseggiare l’altro.
– Come balli bene!
– Grazie.
Si spensero le luci, su un tavolo posto tra la porta di ingresso e le scale fu introdotta una torta con ventuno candeline accese. Dai diffusori arrivò Happy Birthday. Si unirono al coro tutti gli invitati. Lei spense le candeline, dei flash illuminarono il buio, applausi, fischi, urrà, urli, ci riaccesero le luci, si stapparono bottiglie di spumante, brindisi, poi arrivarono una decina di joint lunghi una ventina di centimetri. Furono distribuiti ai gruppi. Colleen ne accese il primo tra fischi e applausi dalla platea. Buon viaggio a tutti, augurò dall’alto delle scale.
Per festeggiare la padrona di casa Carmine partecipò al primo giro con un tiro, tossì e passò. Mentre il fumo girava le parole correvano, Karl propose di andare a New Orleans, una settimana per prendere l’ultimo caldo. Perché non Los Angeles? Anche lì fa caldo. Jenny sembrava entusiasta, gli altri eccitati, si potrebbe partire il prossimo fine settimana, o l’altro ancora. Si sarebbero sentiti per prendere accordi.
– Vieni a casa mia Carmine?
– Cosa dico a Maria?
– Non ti aspettano. Se uno torna a casa vuol dire che la festa è andata male.
– Direi che a me è andata bene.
– Vedi? Non puoi tornare dalla mamma.
Dormirono nel letto di Jenny, abbracciati.
La mattina lui si svegliò che lei ancora dormiva, allontanò la testa per cogliere l’insieme, si riavvicinò e definì il colore della pelle, latterosata, i due nei sul viso, il collo e le spalle, il profilo delle labbra, quello degli archi sopraccigliari, gli zigomi, le orecchie, il mento, il flusso regolare nell’arterie del collo, alzò leggermente il piumone per scoprirne il corpo, lei si raggomitolò su un fianco, un mugolio indistinto, rimase fermo in attesa, quando lei si era acquietata lui riprese la conoscenza, la curva della vita, le spalle pronunciate, l’odore. Prese a soffiare leggermente sul collo, lei non si mosse, continuò per un po’, poi allungò una mano e col le dita sfiorò il braccio, ritirò subito la mano, lei rimaneva immobile, riprovò e si fermò più a lungo, nessun movimento di Jenny. Ritirò la mano e rimase a guardare il soffitto. Jenny, si girò: “allora?”
– Volevo svegliarti.
– Mi piace che mi carezzi, prese la sua mano e la strinse, lui si avvicinò al suo corpo fino a sfiorarla, lei si avvicinò di più.
– Ti è piaciuto dormire con me?
– Ho dormito.
– Non dici mai una cosa bella tu? Un ragazzo americano al tuo posto mi saltava addosso, sempre che alla fine della festa avesse ancora la lucidità e la forza per farlo, nei fine settimana da noi ci si ubriaca. Tu non bevi e non mi salti addosso. Mi piace la tua ingenuità, e poi: sei vergine. Curioso. I ragazzi americani se sanno che la ragazza con cui ci stanno provando è vergine sono capaci di rinunciare, non hanno voglia di perdere tempo. Se poi sono loro ad essere vergine non te lo dicono, magari dopo se la fanno sotto e ti mandano in bianco. Tu invece lo dici, mi chiedi scusa perché non sei mai stato con una donna.
– Beh, non siamo tutti uguali, neanche tutti gli americani saranno come dici tu.
– Mi piace pensare di essere io a farti perdere la verginità. Vuoi farlo con me la prima volta?
– Si, cioè non lo so, cioè voglio dire che non so se ci riuscirò.
– Posso aiutarti, io sono esperta sai. Prima mi devi conoscere, scoprire che ti piaccio, che ti viene il desiderio di me. Io sono a posto, ti desidero dal giorno del museo, però sono allenata, tu no.
Lo baciò delicatamente nella mano, sul braccio, sfiorò con le labbra la pelle, gli carezzò il viso, con un dito segnò il profilo del volto, gli occhi, le orecchie, lo baciò sulle labbra, lui rispose, chiese altri baci, lei prese a darne in tutte le parti del viso, del collo, lui prese il viso, lei dischiuse le labbra, lui baciò dentro, e poi fuori, ai lati, e dentro ancora, rimase avviluppato dal contatto intimo del bacio, non riusciva a distaccarsene. Lei si avvicino con trasporto e si strinse al suo corpo, cominciò a muoversi per cercare contatti più intimi, riuscì a infilare una gamba tra le sue, si portò su di lui, gli sfilò la canottiera, tirò via anche la sua maglietta, prese a baciarlo di nuovo, i capezzoli sfioravano il dorso, sentì che a lui era venuto duro, si fermò per guardarlo.
“Ci fermiamo così, va bene?”
“Va bene, solo un altro bacio”, lei glielo diede, lui l’afferrò e la trascinò giù, ridendo, la rovesciò, le aprì le gambe, e gli fu sopra.
E’ così che si fa, prese a baciarla, e baciarla. Poi si fermò come lei aveva fatto. “Adesso ci fermiamo, ok?”
“Ok”, rispose lei e lo rovesciò, gli fu in mezzo le gambe.
“Non si fa così!” Prese a scivolare col suo corpo lungo quello di Carmine, arrivata all’inguine, poggio il seno sul suo pube, si alzò, gli tirò giù gli slip, “bello vero?”
Lui guardò stupito, lei glielo sfiorò con un dito, il pene vibrò. Vedi cosa gli succede? Trema al mio tocco. E lo sfiorò ancora, e quello si inarcò ed elasticamente ricadde sull’addome. “Bello vero?”
E lo rifece ancora
– Prometti che non lo farai con un’altra prima di farlo con me.
– Te lo prometto.
– Allora fermiamoci, conserviamo la fine per un momento ancora più bello.
Si alzò per infilarsi nel bagno.
Lui la seguì, aprì il box della doccia, si infilò sotto, i corpi si sfiorarono e ripresero a toccarsi, baciarsi.
– Così non resisteremo a lungo.
– Giuro che non ti tocco più fino a quando tu non lo vorrai.
“Bravo, così si fa”. E lei glielo prese in mano e lo baciò, lo prese nella bocca e lo succhiò, poi lo scansò bruscamente ed uscì dalla doccia girando la manopola su freddo.
Carmine urlò, chiuse il rubinetto ed uscì, Jenny lo attese con un telo e glielo porse.
Scesero in cucina, lei prese una torta e del latte dal frigo. Caricò l’acqua e il filtro della macchina del caffè, l’accese. Mangiarono la torta.
– Sono le due del pomeriggio, ti accompagno a casa.
– Dicevi sul serio ieri sera a proposito del viaggio?
– Si, certo, lo facciamo?
– Sto leggendo On the road, me lo ha dato Jimmy, il marito di Maria. Mi tenta molto, piacerebbe anche a me, dici che si può fare?
– Io la macchina ce l’ho. Gli altri pure, e se hanno cambiato idea ci andiamo da soli.
– Dai! E’ forte.
– Bene, allora è fatta, venerdì della prossima settima partiamo. Prepariamo tutto, e appena uscita dal College si parte!
– Non mi è mai capitato di essere così eccitato per una cosa da fare, non vedo l’ora.
– Ehi, italiano troppo eccitato, vedi di trattenerti per me, ok?
– Jenny grazie, grazie per tutto.
– Non ti illudere italiano, l’ho fatto per me.
La casa era vuota, un biglietto sul tavolo della cucina: Abbiamo capito che la festa è andata bene, ci vediamo stasera?
Maria e Jimmy.
Ps: ricordati che stai anche con noi, non sparire.
Riprese a leggere On the road sulla sdraio in giardino. La famigliola ritornò che il sole stava tramontando, lui si era appisolato, si svegliò al rumore della machina sulla ghiaia del giardino, aprì gli occhi, Maryrose corse verso di lui, seguita più lentamente da Junior.
“Minù, Minù”.
Lui la tirò su e l’abbracciò, prese a girare su se stesso, lei rideva e lanciava urli stridenti.
Con la bimba in braccio andò verso la macchina, baciò sulla guancia tutti.
– Tutto bene si?
– Benissimo, è stata una bella festa.
– Sei rimasto con Jenny?
– Si, ho dormito a casa sua, la festa è finita alle quattro del mattino. Quando siamo andati a letto albeggiava.
Lasciò la piccola per prendere dei bagagli ed aiutare a portarli dentro. Raccontò degli italiani del MIT, della proposta di andare da una parte all’altra dell’america in una settimana. Il viaggio che piace a te, e che piace molto anche a me.
– E Jenny?
– Viene anche lei.
– Vi siete messi assieme.
– Forse, mi piace.
– Sono gelosa. Ti conosco appena e già voli via. Non vale.
– Dici sul serio?
– Scherzo, sono contenta che ti piace una ragazza, mi piace anche perché accade qui. Magari ti succede come a me, sposi un’americana e rimani qui.
Si informò sulla serata, sui balli, sul dopo serata a casa di Jenny. Lui racconto della padrona di casa, degli ospiti divisi in tre gruppi, del grande cannone finale, informò che lui non aveva fumato, che aveva dormito insieme a Jenny e che si erano baciati e a lui era piaciuto molto e che non vedeva l’ora di rifarlo.
Jimmy si buttò sul divano. Raccontò del traffico che avevano trovato per tornare da Cap Cod. Disse che avevano un cottage dalla parte dell’oceano, che aveva una classe star e con Maria si divertivano a veleggiare nella baia, qualche volta anche in mare aperto, quando il tempo lo permette, lo invitò a provare a domare il vento per correre sull’acqua. “Il prossimo weekend è bel tempo, ci andiamo da venerdì, se vuoi venire sarai il mio secondo”, disse.
– Il prossimo fine settimana partiamo per il sud con delle persone che ho conosciuto alla festa. Se ci andate anche le settimane dopo non mancherò, quella della vela non me la voglio proprio perdere.
– Al sud dove? New Orleans?
– Non è ancora definito, però si pensava di andare proprio come in On the road, senza stabilire nulla di certo. Si diceva che si poteva scendere per la n.1, proseguire in Florida fino a Key West, poi prendere per New Orleans e da lì risalire il Mississippi fino a Saint Luis, scendere a Menphis, passare per Nashville, e ritornare a Boston.
– Quanto tempo?
– Dal venerdì alla domenica della settimana successiva, quasi dieci giorni.
– I ragazzi che stanno qui non possono perdere molte lezioni.
Posso darti le carte, se vuoi ti posso dare delle indicazioni su alcuni posti dove dormire a basso costo, mangiare sano senza spendere molto.
Possiamo anche darti una canadese due posti, il sacco a pelo, il costume ce l’hai?
– No.
– Allora te ne prendo uno io.
Jimmy tornò con le carte, presentò le caratteristiche delle varie strade, le ore per percorre le distanze, suggerì le ore migliori per passare certi snodi viari senza imbattersi nel traffico locale che crea ore di fila. Ricordò che ogni stato aveva sue regole stradali, i limiti di velocità cambiano, di solito quando entri in uno stato trovi cartelli con le regole cambiate, e anche l’entità che devi pagare se non le rispetti. Il comportamento della polizia cambia, e ricordati che alcuni al sud non hanno dimenticato la guerra di secessione, ci sono poliziotti che quando vedono una targa del nord trovano sempre qualcosa che non va, e al sud ci sono gli sceriffi, che sparano pure. Cerchiò i nodi da evitare in certi orari, le località dove poter trovare ottimo cibo ed economico dormire.
Arrivarono JJ e MR per lo scambio italiano-inglese. Si accomodarono nella camera di Maryrose. Quando ridiscesero la cena era a tavola.
“Ho capito che con te bisogna prenotarsi. I prossimi due weekend sarai in giro per gli States, quello successivo, il primo di ottobre a Cape Cod in barca a vela. Bene, mi prenoto fin da adesso per il secondo weekend di ottobre. Vorrei farti conoscere il più bell’autunno del pianeta, The Vermont fall”.
– Cosa è?
– Vedrai come può essere colorata la natura, i boschi si tingono di colori che mai tavolozza ha riprodotto, uno spettacolo che ti lascerà senza fiato Minù.
– Da questa estate mi si è aperto il mondo. Prima la Sicilia. Lì abbiamo amato la storia e la letteratura come mai. Il desiderio di conoscere, il piacere di scoprire, ma quando mai a scuola ci succedeva una cosa del genere, ora tu, la tua famiglia, poi l’America, Jenny. A proposito, lo sai che Rosaria scrive poesie?
– Davvero?
– Si ce ne ha letta una sulla Sicilia, bella, aspra, potente.
– Hai capito mammà, non mi ha detto nulla, alla prossima telefonata vedi!
La settimana che si aprì fu dedicata ai preparativi del viaggio, che includevano la fine di On the road, lo studio dell’inglese, con i bambini, con Maria e Jimmy e soprattutto con ore ed ore di televisione, taglio del prato, una visita alla Biblioteca Kennedy con Maria.
Decisero di portare tende canadesi e sacchi a pelo, avrebbero campeggiato ovunque sarebbe stato possibile.
Partirono con due auto, erano in nove, Simon e Paul di Pittsburgh, con loro Sebastien e Rachel, Giorgio e Katy, Karl, Jenny e Carmine con l’altra.
Viaggiarono tutta la notte e fecero tappa la mattina dopo in Tennessee. Lasciarono l’highway a Sevierville per salire nella riserva indiana Cherokee sulle Smoky Mountains. Lungo le quaranta miglia per la riserva c’erano tanti cantieri aperti, sarebbero diventati bar, ristori, alberghi, negozi di souvenir.
Saliti sull’altopiano a 4000 piedi, valutarono che la notte sarebbe stata molto fredda per le tende, presero quattro cabin in un camping lungo un creek con le trote che saltavano. Visitarono il locale museo Cherokee, poi girarono l’alta valle in cerca di un posto per prendere del mangiare, trovarono un drive food, si accomodarono con le auto a fianco delle consolle di ordinazione, scelsero il mangiare e il bere pigiando i corrispondenti bottoni, attesero l’arrivo del personale. Arrivò una vecchietta arzilla, magra come uno stecco, capelli ricci, un bizzarro berretto sulla testa, camicetta a righe rosse, gonna jeans con bretelle, ai piedi calzettoni e tennis bianchi, zampettava tra le auto a depositare i vassoi delle ordinazioni e riscuotere i conti. Dalla vetrata si vedeva l’addetto alla cucina, pelato ma con una fitta barba rossa di almeno un metro lunga. I panini era i soliti, il dolce peggio, indefinibile il sapore e il colore, in compenso la cena costò un dollaro e un quarto. Nel centro amministrativo del parco c’era un locale che faceva musica all’aperto, un gruppo di attempati signori con pancetta suonava country tradizionale. Batteria, violino, basso e chitarra, il cantante, con cappello da cowboy infilava ballate una dietro l’altro, diverse coppie di anziani giravano la pista appassionatamente, ai tavoli i boccali di birra viaggiavano spediti.
Confermando il nome dei monti, con la notte la zona fu avvolta da una fitta nebbia, non si vedeva a dieci metri, tornarono al camping. Il creek cantava dietro le casette di legno, l’umidità e il freddo entravano nelle ossa. Era l’ultima settimana di apertura del campeggio, poi tutto il centro turistico andava in letargo per la fine di settembre, riapriva a dicembre per le vacanze invernali.
Di fronte alle loro cabin c’erano due gruppi in tenda, avevano acceso un fuoco. Invitarono i ragazzi a prendere un po’ di caldo, offrirono acquavite buona per il freddo della notte. I ragazzi portarono della cioccolata e una bottiglia di whisky. Una donna attaccò a suonare una chitarra e cantò ballate di Dylan, Donovan e Baez. Ogni tanto un uomo lanciava fischi che rimbombavano nel canalone del creek. Un’altra donna inveiva contro di lui e dalle risate degli americani si capiva che erano cose pesanti, l’uomo era ubriaco e senza freni, continuò a fischiare tranquillamente, fino a che la donna non entrò in tenda. La festicciola si sciolse quando finirono i beveraggi, il fuoco quello rimase a tenere lontana l’umidità.
Qualche schiamazzo continuò anche dalle tende e dalle cabin. Le casette erano dotate di quattro letti a castello, un piccolo bagno, blatte marrone in fila camminavano negli spigoli, ragni dalle lunghe zampe galleggiavano nell’aria appesi ai fili. Ogni tanto degli stridii di uccelli notturni rompevano il silenzio, qualche muggito e persino ululati, forse erano lupi. L’accerchiamento della natura e il freddo spinse i ragazzi uno nella braccia dell’altro. Anche Simon e Paul, l’unico a rimanere solo nella notte fu Karl il tedesco.
Jenny e Carmine non avevano bisogno del freddo per stringersi, loro lo avrebbero fatto comunque. Avvicinarono i due letti a castello, in modo da comporre un letto matrimoniale, continuarono il gioco, un po’ crudele cominciato la settimana prima. Eccitazioni, soglia limite, stop and go. Con una variante, ora l’uno cercava di far cadere l’altro, come avessero paura di unirsi, lei spingeva al coito, lui sperava nell’orgasmo di lei. Ma Jenny ritenne che il tempo del desiderio doveva ancora essere dilatato, perciò anche quella notte si sfinirono senza concludere. Si alzarono che il sole era alto, il vento aveva spazzato la nebbia, dovevano partire, avevano deciso che per la sera dovevano essere in Florida.
Le due tende di fronte erano smontate, gli occupanti stavano caricando le macchine, la donna che aveva litigato la sera prima chiese a Giorgio un passaggio in macchina, disse che non aveva alcuna intenzione di continuare la vacanza col suo amico sempre ubriaco.
E così furono in dieci, si chiamava Joanna, era di origine messicana, viveva ad Austin in Texas. Non prese un semplice passaggio, si aggregò alla compagnia, soprattutto a Karl con cui fece coppia per tutto il viaggio.
Scesero dal versante della North Caroline, poi giù per la Georgia, girarono intorno ad Atlanta e furono in Florida, la tagliarono tutta, passarono a ovest di Miami, e giù per le isole fino alla fine. Trovarono posto nel camping Boyd’s Key West, su Stock Island appena prima di Key West, il camping aveva avanti l’oceano Atlantico e dietro il golfo del Messico. Arrivarono al tramonto, sistemarono le cinque canadesi due posti, presero il primo bagno. A cena seppero di un piccolo arcipelago a settanta miglia a ovest di Key west, c’era un antico forte in mezzo al mare e un’area camping al prezzo di mezzo dollaro al giorno. Si arriva col ferry, costo 8 $. Dry Tortugas il nome dell’arcipelago sede di pirati dal XVI al XVIII secolo, poi gli americani nel XIX secolo ci costruirono un forte pazzesco mai usato perché i nuovi cannoni lo resero inutile.
La mattina smontarono le tende e presero il battello per l’isola di Fort Jefferson, cinque ore di navigazione ed approdarono sull’isolotto, piazzarono le tende, l’acqua celeste, la sabbia finissima e bianca, il campground era sotto le palme sulla spiaggia. All’arrivo, la fortezza rossa che usciva dall’acqua, la sabbia bianca, l’acquamarina del mare, le palme, i pirati, si misero a saltare come pazzi invasati.
Ci rimasero due giorni non spendendo che per l’acqua da bere, mangiarono pesce regalato da dei campeggiatori pescatori che ne prendevano tanto da non sapere cosa farne. L’acqua era calda e bassa, si divertivano a seguire i pesci anche se non avevano le maschere. L’isola del forte era circondata da altre isole raggiungibili, tranne pochi metri, camminando nell’acqua: Bush Key, Long Key, Garden Key.
Jenny aveva deciso che quello era il posto giusto, ma fu anche la prima volta di Joanna e Karl trovatesi per strada e decisi a rendere memorabile una vacanza per lei nata male.
La definirono l’isola dell’amore, perché lo fecero tutti, come ebbero a dirsi la mattina che si alzarono col sole che usciva dall’acqua.
Jenny uscì nuda dalla tenda e si andò a tuffare, la imitò tutta la compagnia. Si ritrovarono a danzare al sole nascente nell’acqua dorata, fu amore unione del creato.
La giornata passò sulla sabbia sotto le palme, o a rosolarsi al sole davanti l’oceano, a rincorrere i pesci, Simon con un coltello appuntì la parte legnosa della foglia di palma, e con questa si mise a pescare, lo raggiunse Sebastien, Giorgio, Karl e Carmine, presero una ventina di pesci. Dall’acqua gridarono alle donne di preparare il fuoco che loro stavano procurando il cibo.
I pesci furono più squisiti di tutti gli altri mangiati fino ad allora, anche se alcuni erano tante spine e poca carne.
Si fermarono davanti al tramonto, decisero di andare in tenda col calare della notte come gli uomini primitivi.
La mattina ritornarono a Key west, presero le macchine e via per la n.1, poi tagliarono per Naples attraversando il parco delle Everglades, risalirono la Florida dalla parte del Golfo del Messico, al tramonto stavano attraversando le paludi che precedono New Orleans, armadilli attraversavano la strada, se ne trovavano morti lungo i bordi, cartelli pubblicitari invitavano a tour tra gli alligatori e le capanne degli indiani delle paludi, tour della tradizione Creole, e tour della tradizione Cajun, attraversarono il ponte sulla laguna ed entrarono in quella che doveva essere un sabbione depositato dal Mississippi, colonizzato dai Francesi, sostituiti dagli spagnoli che poi vendettero tutta la Louisiana ai nuovi padroni.
Trovarono posto da un’affittacamere in Chestnut street, appena fuori del Garden district, il quartiere delle sontuose ville degli arricchiti della canna da zucchero e del cotone. La casa di legno a due piani era fatiscente, ma aveva un appartamento per piano composto da quattro camere, due bagni e cucina. Non c’erano altri clienti, presero l’appartamento del secondo piano, l’arredamento era di inizio secolo. La padrona, una vedova discesa negli anni quaranta dal Connecticut, aveva sempre una sigaretta accesa infilata in un bocchino d’avorio con un cerchio d’oro all’attacco della sigaretta. Ciò nonostante le dita era gialle, come pure i lati delle labbra, bionda pettinata come Marlen dell’Angelo azzurro, magra, rughe spesse, trucco pesante. Volle essere pagata prima, naturalmente, come in tutti posti dove eravamo stati, non chiese documenti di identità. La signora “Marlen” assicuro che il posto era tranquillo e che potevano lasciare anche le macchine aperte con le chiavi inserite. Loro invece la macchina la presero subito per recarsi nel French quarter, posteggiarono appena fuori, mirarono subito a Bourbon street. Mangiarono piccante in un locale Cajun, c’era un gruppo che suonava naturalmente Cajun. Una musica gioiosa, fresca, di grande energia, un misto di country, fisarmoniche francesi, ritmi africani, i musicisti ci davano sotto allo spasimo, un cartello avvertiva i clienti che la banda stava suonando per la mancia.
Usciti dal locale presero a camminare per Bourbon street, strada storica di bordelli, di sexy shop, di criminali e, soprattutto, la strada del jazz suonato proprio nei locali off limits per il perbenismo di allora. C’era un locale, in una strada che faceva angolo con Bourbon street, arredato come ai primi del novecento quando quella musica cominciava ad uscire dalla clandestinità, si chiamava Preservation hall, il locale, nato da pochi anni, si proponeva di preservare il jazz classico dall’invasione dei nuovi stili e dal rock’n’roll. La musica era a pagamento, si esibivano band storiche del dixieland, vecchi musicisti, non di rado ottantenni che si incontravano con giovani generazioni che volevano seguire la tradizione. Due bande si alternavano per spettacoli di quaranta minuti, era vietato introdurre bevande. Panche di legno per sedersi, vetri rotti e incrostati di povere, ragnatele piovevano dal soffitto, pareti con ampi squarci nell’intonaco e alcuni oli raffiguranti vecchi musicisti, il nero delle lampade a petrolio incrostava il soffitto, all’altezza delle mani le pareti raccoglievano l’unto lucido lasciato da quelle lì poggiate da anni, jazz tradizionale si, ma qui diventava calda fragrante pagnotta di pane appena sfornata. Negli altri locali della zona la musica era gratuita e la consumazione obbligatoria. Bourbon street, la strada, è il palcoscenico di spettacoli più accattivanti di quelli che si svolgono nel chiuso dei locali: mentre nei locali c’è uno standard confezionato da rispettare, sulla strada tutto è possibile, perché è spettacolo di folla. Gli angoli dei marciapiedi bagnati da un piccolo rigagnolo, non di acqua ma di birra, per tutta la strada la birra inacidita, caduta o vomitata, impregnava le pietre e spandeva un lezzo non proprio piacevole.
In realtà il quartiere francese è spagnolo, il vecchio francese fu distrutto da un incendio, gli spagnoli ne costruirono uno nuovo alla loro maniera, case basse, balconi ricamati da splendidi ferri battuti.
Ai locali della musica si alternavano quelli sexy, top less, bottom less, less…. più si denudavano più costavano le consumazioni. Per strada vendevano collanine colorate a grappoli, dieci collane mezzo dollaro, gli uomini le compravano per metterle al collo delle donne, non solo le proprie, era un modo per dichiarare il proprio gradimento a una donna incontrata per strada. Era possibile incrociare belle ragazze affacciate ai balconi di ferro battuto che per le collane esibivano le loro grazie.
Il popolo della strada lanciava collane, loro dopo essersi fatte pregare e aver razziato decine di cimeli lanciavano baci, a volte facevano segno di salire. Flash, fischi, urli, invocazioni d’amore, applausi.
La vita di Bourbon street andava avanti, la macchina era attiva 24 ore su 24. All’alba ci sarebbe stato un cambio di personale, e anche il tipo di turista cambiava, avrebbero pulito le strade per ricevere il turismo diurno, sarebbero andate in scena le happy hours, col bere a metà prezzo e anche a un terzo del presso della notte. Le bande nei locali erano sostitute da altre, e così il ciclo si ripeteva di giorno in giorno, di anno in anno, in perfetto sistema produttivo fordista.
Per intanto i marciapiedi si andavano riempiendo di ubriachi appoggiati alle mura dei locali, buttati su un fianco o pancia all’aria, cantavano, russavano al cielo stellato, vomitavano, piangevano, ballavano intorno alle aste di ghisa che ancora testimoniavano il sistema per legare i cavalli fuori ai saloon, litigavano con immagini appese ai muri, invocavano donne sconosciute, pregavano in ginocchio davanti a un balcone.
Andarono via che erano le quattro del mattino, arrivarono alla macchina che erano cotti, si buttarono a peso morto, qualcuno trovò il tempo di dormire nel quarto d’ora di tragitto. Ciò nonostante i letti cigolarono quella notte.
Giorgio la mattina dopo si informò sui locali che suonavano free jazz, decisero di scendere a downtown col tram che passava proprio sulla parallela di casa, era mezzogiorno, andarono direttamente davanti alla cattedrale di Jackson square, entrarono in un locale dagli alti soffitti coloniali, servivano tutti i tipi di colazioni, croissant caldi e cioccolata alla cannella fu quelle preferita. Davanti alla cattedrale un gruppo suonava musica Zydeco, anche questa molto viva, fresca, divertente, godibile anche come spettacolo, perché i musicisti si muovono molto mentre la suonano, stranamente musiche come la Cajun e la Zydeco così immediate, fresche e gioiose, non valicavano i confini regionali. Si possono ascoltare solo in Louisiana. Dopo la colazione andarono a sedersi sui gradini della chiesa per gustarsi il concerto. Quando la banda smise di suonare, il gruppo si divise, alcuni andarono al museo del Jazz, altri preferirono andare sulle sponde del Mississippi. C’erano dei battelli che congiungevano le due rive, una corsa costava 15 C, lo presero per navigare sul padre delle acque della grande terra americana, andata e ritorno, poi si buttarono sulle panchine della zona dell’acquario, per dormire, per riposare, per concedersi un attimo di introspezione in quella corsa.
La sera non tornarono a Bourbon street, scelsero una zona non turistica, locali per gli abitanti di New Orleans, con jazz suonato da loro e per loro. Ne trovarono uno che prometteva jam 24 ore su 24. I clienti erano invitati a portare gli strumenti, il locale metteva a disposizione batteria, piano e amplificazione. Ai primi tavoli c’erano tutti i musicisti prenotati che aspettavano il loro turno. Interessante, ma la musica non era gran che, ci rimasero un’ora, poi decisero che non valeva la pena. Passarono ad un altro che dichiarava Only free jazz, qui si esibiva un trio, basso batteria e sax, il sassofonista, oltre a suonare tutti i sassofoni, si esibiva anche al flauto e al kazoo. Rimasero per una session e andarono via, passarono a un locale only delta blues, un cantante strappava le corde della chitarra, la batteva, batteva i piedi, suonava armonica e, naturalmente, cantava. Anche qui una session e via. Si trovarono in una zona di grandi sale, auditorium. Qui i cartelloni prevedevano i mostri sacri, da lì a dicembre, Ella Fitgerald, Carmen Mac Cree, Ray Charles, Sonny Rollins, Nat king Cole, la banda di Charly Haden, ed altri ancora. I prezzi erano alti, andarono verso il Moon walk, camminarono lungo il Mississippi, la luna c’era davvero lungo la passeggiata, musicisti suonavano ogni genere di musica, naturalmente jazz, country, cajun, zydeco. Si esibivano in tutte le formazioni possibili, anche solo brass di trombe, solo ritmiche, ecc..
“E’ tempo di andare” disse Karl, “New Orleans l’abbiamo presa. Abbiamo solo venerdì, sabato e domenica per risalire tutti gli Stati Uniti d’America”.
– Ci andiamo a Saint Louis o no?
– Si che ci andiamo, dobbiamo risalire il grande fiume, fino alla città dei battelli dalle ruote a pale in poppa.
Ritornarono alle loro camere, raccolsero i bagagli e partirono.
Jenny lo lasciò davanti casa alle sette del mattino. Portò dentro la sacca, la tenda e il sacco a pelo, Jimmy stava preparando il caffè, un saluto assonnato, domande sbrigative su come era andata. Carmine rispose che ne aveva cose da raccontare e da chiedere, ma lo avrebbe fatto a cena, ora aveva bisogno di buttarsi sul letto. Salì in camera, tirò via i vestiti, si buttò sul letto, bussarono alla porta, entrò Maria, lo salutò e gli augurò buon riposo.
“L’America è bellissima, ho tanto da dirti, se mi sveglio in tempo vengo all’ora del lunch”.
Lei prese un foglio di carta e una penna dal tavolo e sedette sul bordo del letto.
– Ti lascio il numero di telefono del mio ufficio, adesso ce la fai a tenere una telefonata in inglese, no?
– Si, abbastanza.
– E se squilla il telefono rispondi, se non vieni nel pomeriggio provo a chiamarti.
– Si. Ti voglio bene, sono contento di stare di nuovo qui, sono contento di averti ritrovata.
Lei lo carezzò.
– Dormi bene. Si alzò e usci dalla camera.
Non si svegliò in tempo, alla mezza chiamò Jenny, voleva sapere del rientro, voleva dirgli che era stata bene e che però era agitata, “stai diventando troppo importante per i miei gusti, penso a quando partirai, ne sto già soffrendo”.
Rispose che il pensiero che non si sarebbero più visti era insopportabile anche a lui, che la telefonata lo aveva rattristato.
Andò al viaggio appena concluso, alla notte all’isola della fortezza, il bagno e l’amore collettivo nelle acque dorate dell’alba, i letti cigolanti dalle reti troppo molli di New Orleans, la notte sul Big River a sud di Saint Louis, quando l’uno immerse l’altro nelle acque in un rito battesimale, poi sulla riva si unirono tra loro e con la natura.
La musica country di Nashville del Tennessee e la corsa notturna per arrivare a Boston in tempo per le lezioni del lunedì mattina.
I ricordi si allargarono fino all’estate, gli esami, la lettera del padre, la Sicilia, Rosaria e le sue lezioni, Maria e l’inquietudine di certi momenti con lei, Jenny l’amore e il sesso, tutto troppo rapidamente, gli eventi lo stavano travolgendo. Non sapeva più cosa voleva. In qualche parte c’era l’Italia, Ciro, gli amici, la filosofia, gli studi, richiami lontani, stanchi, offuscati.
Il telefono squillò, questa volta era Maria, si era concessa una pausa dalla preparazione dei materiali della lezione del giorno dopo. Chiese se aveva mangiato, se aveva smaltito la stanchezza, se aveva bisogno di qualcosa così che lei al ritorno la potesse prendere.
Tutto bene rispose lui, non aveva bisogno di niente e non vedeva l’ora di parlarle.
Al che lei disse che finiva di preparare la lezione e veniva via, entro un paio di ore sarebbe stata a casa.
Si accomodò con una sdraio vicino a Carmine.
– Allora Minù?
– Sono confuso, diviso, Ciro, l’Italia, tutto così lontano. La mia vita è stata presa in un vortice, non so più cosa voglio. In questo momento non ho alcuna voglia di tornare in Italia, ma appena realizzo cosa sto dicendo mi sento male per Ciro. La mia vita senza di lui? Non è possibile. e poi sarei un vigliacco approfittatore, lui mi ha dato tutto, ed io? Ora che è lui che ha bisogno, che faccio? Lo mollo?
– Minù tutti hanno diritto a vivere la loro vita, Ciro è stato il tuo genitore reale, ma tutti i figli a un certo punto lasciano la casa materna, o paterna, per vivere la propria vita. Non si può fermarla.
Non precipitare le cose, hai ancora un mese da stare qui e il tuo sentire non è detto che sia lo stesso. E dopo, puoi vivere in Italia e tornare spesso qui, oppure viceversa. Insomma può essere molto più leggera la soluzione da trovare. Dovresti sentirti più forte non più lacerato. Prima c’era solo Ciro, adesso ci sono più persone che ti vogliono bene, che si preoccupano di te, che ti amano.
– Ma l’amore rende fragili non forti, l’amore che ho conosciuto qui crea paure. Quello che conoscevo prima era amore senza preoccupazioni, un amore come un concerto celeste. L’amore che ho conosciuto qui è imprevedibile, ogni gesto ha tante interpretazioni, ogni parola cela allo stesso tempo suoni celestiali e rulli di tamburi.
– Si diventa uomini quando si ha il coraggio di vivere questo amore qui. L’amore di Ciro è importante ma se tutta l’umanità lo scegliesse sarebbe la fine dell’umanità. Per me, e non perché ho un’educazione laica e una scelta di ateismo, il vero amore è questo qui, incerto, imperscrutabile, fragile, capace di manifestarsi violento e docile, però davanti alla sua forza tutto impallidisce.
– E’ troppo per me. La sua forza mi travolge.
– Questa forza è Jenny?
– Si è lei, ma non solo, non semplicemente. Durante il viaggio ci siamo amati tutti, sono accadute cose, ….. ci siamo amati nudi, abbiamo fatto l’amore tutti assieme, ci siamo baciati, anche maschi con maschi, e femmine con femmine, ci siamo uniti tra di noi e con la matura. Ci siamo immersi nei mari, nei fiumi, nei laghi, ci siamo distesi sulle sabbia, sui prati, sulla terra appena arata.
– Amore universale
– Si, nessuno rimaneva da parte, nessuno aveva privazioni dagli altri.
– Ti invidio. Quando ero ragazza, ma per motivi diversi anche quando il rapporto con Vincenzo era in crisi, ci pensavo a questo amore armonia che non esclude, ma i tempi proprio non erano adatti. Sono felice che succeda a te, mio figlio. Perché tu te lo ricordi che io sono tua madre si?
– Certo che si.
Carmine si alzò dalla sedia e l’abbracciò con calore. “Ti voglio bene”. La strinse forte.
“Anche io figlio mio”.
Arrivò lo scuolabus con JJ e Mirò.
– Ma cosa sanno di me loro due?
– Sanno che sei loro fratello, lo sanno da anni. Jimmy lo sa da quando ci siamo conosciuti all’università. Loro ogni tanto chiedevano di questo fratello grande, perché non viveva insieme a noi.
Carmine si commosse. I bambini arrivarono di corsa raccontando di un litigio durante il tragitto.
Giochiamo a basket? chiesero a Carmine.
No, ne facciamo un altro, si gioca in Italia, il calcio. Si fece aiutare a segnare il campo sul prato, le due porte con delle cassette di plastica, presentò le regole principali. Intanto era arrivato Jimmy. Carmine lo coinvolse nel gioco, formò le due squadre, lui e Mirò contro J&JJ. Pestoni e calci non mancarono, anche cadute rovinose, vinsero Carmine e Mirò 10-7. Fecero la doccia, e cenarono.
L’incontro scambio linguistico Carmine lo tenne sul suo paese, Ciro, gli amici, la scuola. Lui raccontò in inglese e JJ e Mirò dovevano raccontare la loro città in italiano.
Verso le nove di sera chiamò Jenny, rimasero al telefono fino alle undici, presero appuntamento per il giorno dopo.
Andarono al cinema, videro “In the Heat of the Night” il titolo
italiano sarà “La calda notte dell’ispettore Tibbs”, un film sul razzismo negli stati del sud, uno dei pochi film dove il
protagonista principale era un attore di colore.
Dopo il film Jenny volle andare sull’oceano, scesero a sud fino a Sand Hills, una località appena fuori dalla baia di Boston, fermarono la macchina sul lungomare, c’era una larga spiaggia, grandi onde, e un forte vento che la spazzava. Stavano lì per subire la forza della natura, li faceva sentire impotenti, come l’amore, rimasero abbracciati davanti all’oceano fino a sentire un gran freddo. Ripresero la strada di casa.
– E se venissi con te in Italia?
– Sarebbe bellissimo.
– Lo faccio davvero.
– Non sei una minaccia, io sarei felice se tu venissi.
– Punto alle vacanze della chiusura invernale.
Si lasciarono leggeri leggeri, avevano creato un ponte tra Boston e Laurito.
Il Venerdì pomeriggio partirono per Cap Cod, un uncino nell’oceano a sud di Boston. La località dove Maria e Jimmy avevano il cottage era nei pressi di Provincetown, più o meno alla fine dell’uncino a due ore di macchina da Boston. Il cottage sorgeva sulla duna appena discesi dalle Pilgrim Heigts, una zona collinosa che in realtà era formata da grandi dune di sabbia accumulate dal tempo.
Il paesaggio ventoso con nuvole che correvano nel cielo, erano arrivati alla fine del giorno. Maria si occupò di aprire la casa e sistemare i bagagli, Jimmy e Carmine andarono al centro per comprare legna per il camino, poi si recarono sul molo dove le imbarcazioni dei pescatori vendevano il pescato, presero 4 aragoste, dei granchi blu, Maria ci avrebbe fatto gli spaghetti. Preso il pesce fecero un salto alle banchine del porto turistico, qui era ormeggiata la loro barca, si chiamava “Vento in poppa”, in italiano. Jimmy ci saltò sopra a controllare che tutto fosse a posto.
Tornati a casa scaricarono la legna in cantina, accesero il camino. Tuffarono le aragoste in una vasca piena d’acqua, prepararono il pentolone per bollirle, misero sul fuoco anche quello degli spaghetti. Il vento dell’oceano si faceva sentire alle finestre, chiusero le imposte sottovento. Il cottage aveva una sala di ingresso ampia con angolo cottura, due divani letto, un tavolo di lavoro a una finestra, un tavolo da pranzo di legno massello stile rustico, due sedie a dondolo, una poltrona in pelle basculabile, un tappeto, una radio, uno stereo, un po’ di LP, un angolo bar con vari liquori. Appendiabiti con quattro giacche a vento marinare, scarpiera con scarpe antiscivolo per barca a vela. L’interno era di rovere, del resto tutto il cottage era di legno, come quasi tutte le costruzioni della zona. In fondo alla sala tre porte, la centrale era il bagno, le altre due camere da letto.
Il pentolone bolliva, Jimmy calò i granchi per passarli a Maria per gli spaghetti, lei li ruppe, tirò fuori la polpa, un po’ ne mangiarono subito, poi si fermarono per averne per gli spaghetti. Preparò un soffritto di cipolla, verso la polpa e appena dopo del pomodoro.
Buttò gli spaghetti. Dieci minuti dopo stavamo gustando. Jimmy calo la prima delle due aragoste destinate alla serata. Maria l’aprì e presero a mangiarne, Jimmy arrivò con la seconda appena in tempo che l’altra era finita.
La serata si concluse con i bambini che giocavano sul tavolo e gli adulti davanti al camino, bicchiere in mano, sigaretta nell’altra. Carmine raccontò della riserva Cherokee, volle sapere dei diritti degli indiani delle riserve, come erano nate, se erano volute dal governo o dagli indiani, e come vivevano questi. Poi volle sapere della Louisiana, dei francesi e degli spagnoli, delle anime culturali Creole e Cujan. Raccontò che il sud era sembrato povero, specialmente l’Alabama e il Mississippi.
– La storia Indiana è diversa dalla presenza degli Afroamericani. Gli Indiani erano gli abitanti di questo continente. Ultimamente i movimenti per le emancipazioni delle minoranze americane hanno cominciato a rivendicare riconoscimenti e diritti. Questi anni stanno cambiando molte cose, hanno cominciato gli Afro americani, questi hanno messo il dito in una delle grandi vergogne americane, il grande paese è divenuto ricco e potente utilizzando la schiavitù. La seconda vergogna della nascita di questa nazione è la distruzione dei nativi americani, gli indiani. Le riserve furono un compromesso tra la richiesta di un territorio-nazione indiana richiesto dai popoli che ancora avevano una certa consistenza e forza e il bisogno di controllare i selvaggi che non volevano adattarsi alla civiltà. Realizzarono questi luoghi orribili dove lasciare morire gli ultimi che ancora volevano essere diversi. Chi voleva poteva abbandonare la riserva per vivere come il buon uomo bianco. Oggi ci sono studi importanti di revisione storica che fanno giustizia di tutte le sciocchezze scritte e tramandate dai bianchi. Insieme agli studi si fanno scavi, si raccolgono le testimonianze delle civiltà precolombiane. Sta uscendo fuori un patrimonio notevole che negli anni a venire darà i suoi frutti. Come pure i movimenti afroamericani. Ci sono i moderati come Martin Luter King, ci sono i radicali come Malcom X e le Black Panter, ci sono quelli che vogliono emancipazione ed integrazione razziale e chi invece predica la diversità, parla di Nazione Afroamericana, di orgoglio nero, invita a recuperare le radici, addirittura invita a tornare all’antica madre Africa, predicano di realizzare i loro linguaggi, di praticare le antiche usanze, di cancellare i nomi e i cognomi dati dagli schiavisti per recuperare quelli antichi quando avevano la dignità di uomini liberi.
Ci sono ogni giorno scontri in tutto il paese. L’Alabama, il Mississippi, la Georgia, siamo nel profondo sud, al nord i neri hanno il problema di diritti non rispettai, ma lì c’è la segregazione razziale, non sono schiavi ma per certi versi stanno anche peggio degli schiavi.
Questo paese sarà ancora più grande quando diventerà capace di dare a tutti le stesse opportunità, allora le intelligenze e le diversità che collaborano daranno una spinta a tutta l’umanità.
Il Massachusetts passa come lo stato dei Kennedy, è vero, ma perché i giovani Kennedy hanno saputo spostare avanti il sogno americano, non a chiacchiere, realizzando prima di tutto nel loro stato il più avanzato welfare d’america. Qui non ci sono problemi razziali, non ci sono persone estremamente povere, e se lo sono non coincidono automaticamente con la gente di colore.
Il nostro benessere viene anche dalle opportunità che sono state date agli afroamericani.
– Questo paese è un grande paese perché sa accogliere tutti. Quando sono venuta qui mi hanno detto, a noi non importa chi sei stata, importa cosa diventerai qui. E’ vero che ho dovuto dichiarare di non aver mai fatto attività antiamericane, che poi vuol dire non essere comunisti, è vero che l’ambasciata ha preso informazioni, che mio padre ha fatto da credenziale per me, però una volta qui loro mi hanno rispettato per quello che ero capace di essere. Da noi non è così, vanno avanti le raccomandazioni piuttosto che i meriti. La nostra società è chiusa, nessuno da operaio diventa presidente della repubblica, qui è possibile, e succede veramente. E’ un mito, ma un mito che funziona e che come tutti i miti ha del vero. Per farti capire, in questo stato molti obiettivi dei comunisti e dei sindacati italiani sono già realtà.
– Quello che dite farebbero felice Ciro, a Laurito lo attaccano perché denuncia le ingiustizie, in pratica dicono che sta coi comunisti solo perché è dalla parte delle povera gente non solo con la carità ma anche denunciando le ingiustizie. Quando ritorno devo raccontare di questo welfare che realizzano i Kennedy e non i comunisti.
Maria sorrise, Jimmy la guardò indagatore, Carmine non capì.
Il giorno dopo Jimmy lo svegliò all’alba, “se vogliamo veleggiare tranquilli dobbiamo uscire adesso, il vento è meno forte”.
Preparò molto caffè ne riempì un termos, fece scegliere una giacca e delle scarpe a Carmine e uscirono, disse che più tardi sarebbe venuta anche Maria, che l’avrebbe sostituito come secondo quando il vento sarebbe cresciuto.
Uscirono dal porto in direzione sud, le condizioni erano ottime, il vento veniva da est, non avevano bisogno di fare bordi, ne’ a scendere, ne’ a salire. L’impegno di Carmine fu soprattutto di contrappesare la spinta del vento. L’esperienza fu piacevole, andata e ritorno percorsero 15 miglia, ritornarono al porto che erano le 10,30, Maria li attendeva, gli affidò i bambini e partirono in direzione ovest, vento in poppa, si allontanarono rapidamente.
Loro passeggiarono per il centro abitato, trovarono delle giostre, girarono tutti e tre, poi presero un gelato. Carmine chiamò casa di Jenny, ma non rispose nessuno, ripresero a girare, si diressero al molo dei pescatori, si soffermarono a vedere due grandi squali distesi su un telo, JJ toccò i denti acuminati, poi andarono al porto turistico ad attendere i genitori, riconobbero il numero sulla vela a qualche miglia di distanza, stavano bordeggiando perché ritornavano contro vento, che era salito di molto, l’acqua della baia era ricoperta di ondine spumeggianti, la velatura della barca era diminuita per ridurre la forza del vento, fecero tre bordi prima di entrare nel porto ad attaccare la barca davanti a loro. Erano fradici d’acqua, la faccia viola, andarono in macchina per cambiarsi. Tutti al ristorante, presero ostriche, granchi e squalo alla griglia. Il pomeriggio assistettero a un reading di poeti. La zona era un punto di riferimento per vari tipi di artisti, soprattutto scrittori. Mangiarono per strada delle pannocchie arrosto e bollite, imburrate e salate.
Prima di tornare a casa richiamò al telefono Jenny, niente da fare. Maria che era sempre attenta ai movimenti di Carmine lo informò che non si doveva aspettare che una ragazza americana, o un ragazzo, rimanesse in casa il sabato. “Prova domani all’ora di pranzo”.
Ritornarono a casa, accesero il camino e si sistemarono per la lettura, il vento aumentò e dopo un po’ cominciò a piovere, Carmine non aveva da leggere, si sistemò a lato del camino preso dal procedere della consunzione dei ceppi e dai movimenti della fiamma, i bambini si addormentarono sul divano, il vento fischiava, Carmine si sentì lontano, perduto in un luogo sconosciuto, scivolò nel sonno. Si svegliò che era mattina, era sistemato sul divano con un piumone addosso.
Maria dopo un po’ entrò nella sala, si avvicinò, lui sorrise.
Ieri sera dormivate tutti e tre, vi abbiamo messo a letto ad uno ad uno, proprio come in una famiglia unità. Lui sorrise, lei aggiunse che il tempo era cattivo, che in barca non si poteva andare, che ne approfittava per preparare una grande colazione.
Impastò il pancake, Carmine si avvicinò per dare una mano, lei mostrò la quantità da versare in padella e il tempo di cottura, mentre Carmine cuoceva, lei impastò il mix per i waffle, tirò fuori la piastra per cuocerli, passò il compito a Carmine, passò a preparare la caffettiera americana, infine si dedicò al sistemare le posate sul tavolo, mise il parapioggia e uscì. Tornò con dei margheritoni gialli che crescevano sulla duna, li depose in un vaso, aprì le imposte, svegliò il resto della famiglia e fu domenica.
Ognuno impilò i pancake imburrandoli e distribuendo lo sciroppo d’acero, alla fine il coltello affondava nel multistrato e la bocca si riempiva di un buon sapore, tutto innaffiato da succo di arancia in scatola, caffè e latte.
Decisero di anticipare il rientro così da evitare il traffico, partirono verso mezzo giorno, arrivarono a casa alle tre.
Carmine telefonò ancora a Jenny, senza avere risposta.
Lei chiamò la sera, per dire che era stata nel Vermont con gli amici, gli parlò dei colori dei boschi, delle escursioni sul lago con le canoe, lui fece notare che erano stati tutti e due in acqua, ma non la stessa, la sua era salata mentre quella di lei era dolce.
Si comunicarono la voglia di vedersi, si diedero appuntamento per la sera del giorno dopo.
Partirono alle cinque del pomeriggio per le Green Mountain del Vermont. Contavano di stare nel villaggio di Weston prima delle nove di sera, avevano due ore di macchine per i boschi americani, strade buone ma con limiti di velocità molto bass. Maria aveva prenotato due camere al Colonial House Inn, un bed & breakfast stile antico appena fuori dal villaggio. Prevedendo la chiusura del ristorante dell’albergo si fermarono a un emporio di una stazione di servizio, presero pollo arrosto, patate dolci, panini, vino, qualche tavoletta di cioccolata, dei muffin. Arrivarono passate le nove, il ristorante come previsto era chiuso, andarono in camera, sistemarono il bagaglio, presero una doccia, poi si ritrovarono da Maria per la cena.
Aprirono un telo sul letto e prepararono la tavola, il pollo al centro nella vaschetta di alluminio, a fianco il contenitore delle patate dolci, la bottiglia di vino e i bicchieri di carta sul comodino. Sull’altro comodino i dolci.
Maria divise il pollo, mangiarono, bevvero il vino, provarono i dolci. Lei andò alla finestra, ne aprì uno spicchio e accese una sigaretta.
– Minù in questi giorni, prima di questi giorni, hai avuto ricordi di me, di quando eri piccolo?
– Questi giorni no, nel passato un’immagine di essere cullato. Veramente non vedo me o chi mi culla, sento il rumore della seggiola che va avanti indietro, c’è una porta finestra semichiusa, una tenda che si gonfia leggermente, e questo battere della seggiola, un senso di intimità accompagna l’immagine. Ho sempre pensato che era mia madre a cullarmi, l’immagine mi dava quell’accoglienza intima che penso sia di madre.
– Sono irritata con me stessa.
– Perché?
– Per una situazione assurda che sto vivendo. Non ti merito per tutto quello che ti ho fatto e non ti ho dato, però tu poi vieni e la mia vita ne è sconvolta. Non faccio in tempo ad affezionarmi che tu corri dietro alle ragazze americane. Sono gelosa Carmine, non era uno scherzo, sono gelosa da far schifo. Mi vergogno di questo sentimento, è orribile, vivo la tua storia con Jenny come un tradimento. Prima che arrivassi costruivo con distacco il minimo e il massimo che poteva succedere, mi allenavo per tutte le evenienze. Tutto sballato perché quando finalmente sei qui, io mi trovo a desiderare di poter essere la madre che cresce il figlio rimasto fermo all’età a cui lo aveva lasciato. E’ ridicolo lo so, ma ho pensato davvero che potessi essere la mamma del tempo della prima infanzia. Cosicché mentre faccio questi sogni tu ti riveli cresciuto, adulto, cioè quello che realmente sei. Ti innamori di un’americana della tua età, scopri la passione, il sesso, tutto, tutto davanti a me, tutto senza darmi il tempo di crescerti. La tua figura comincia a confondersi con quella di Vincenzo, emerge la lacerazione dai cui fuggii tanti anni fa. Non può essere che la storia si ripeta mi sono detta, e poi lui è mio figlio, non mio marito. Hai visto quanto somigli a tuo padre?
Piangeva.
– Ma tu non sei mio figlio solo perché ti ho generato, io non ci sto dentro di te. Tu sei stato nove mesi dentro di me, la tua assenza, mia colpa, per tutti questi anni mi ha accompagnato come peso in fondo allo stomaco in attesa del conato liberatorio, che mai veniva. Io sento la tua mancanza tu non la mia, perché io non sono depositata dentro di te. Dunque ho ritrovato un figlio che non può essere mio figlio, che mi ricorda Vincenzo ma non può essere mio marito, ma che mi fa soffrire come lui, anzi più profondamente perché io ti ho generato, nutrito, cullato, senza poter depositare ricordi dentro di te, dunque io come madre tua non esisto. Sono disperata Minù. Non posso perdermi come allora, non posso ancora fuggire.
Carmine si alzò dal letto, andò alla finestra, abbracciò Maria come volesse comprenderla in se, lacrime silenziose cadevano sulle sue mani. Fuori qualche automobile attraversava la strada, nessun pedone, l’aria era tersa, l’intermittenza di un insegna di bar spandeva una luce rosa.
– Mamma ce l’ho qui, appena sotto il pomo di Adamo, ce l’ho dalla sera sul molo di Boston, attribuivo alla parola la gratitudine per averti trovata, il sentire che mi sarei affezionato a te come a nessuno mai.
– Ma non l’hai mai usata.
– La baciò sulla guancia tenendola abbracciata da dietro. Lei ebbe un sussulto, poi gli carezzò le mani, gliele prese e le baciò.
– Lo sai come sono partito alla ricerca di te? La lettera mi aveva turbato non poco ma la spinta fu un sogno, un sogno dove io parto dall’isola di Ogigia, in Calabria, arrivo fuori la stanza di Penelope. Lei si sta tenendo un seno con la mano, poi mi appare con tutti e due i seni scoperti, bianchi teneri seni che mi richiamano, non resisto entro nella stanza li tocco e mi sciolgo in una dolcezza che mi sconvolge. Mi sveglio in un nuovo mondo, un mondo dai confini imperscrutabili ma tanto attraenti da non poter più rinunciare alla loro scoperta.
Da sveglio, dopo altri sogni molto complicati, davanti al sole che nasceva proprio dietro l’isola di Ogigia, mi chiedevo se nel sogno ero Ulisse o Telemaco. Avevo desiderato quel seno da figlio o da marito di Penelope. Ma non era scindibile perché ero sempre io ad aver sognato.
Rimasero in silenzio con la luce rossa che scandiva il ritmo del tempo, seguivano la scia luminosa delle rare auto.
– Desidero e non distinguo, desidero unire e non scindere, sono tuo figlio e voglio amarti senza alcuna distinzione. L’unica cosa al mondo che desidero è scoprire il tuo seno e vivere il piacere del sogno.
Lei si voltò, infilò la mano nell’accappatoio, tiro fuori un seno e con la mano lo offrì.
Il candore ero lo stesso, la forma più aggraziata, adolescenziale più che di madre, aveva il capezzolo grande e pronunciato, quasi fosse gonfio di latte. Carmine esitò, fu solo un attimo, il sogno lo prese e allungò la mano per sfiorarlo.
Un tepore lo raggiunse prima di arrivare a toccarlo, lo sfiorò appena e si ritirò, alzò la testa verso il viso in intensa attesa e lo baciò con tenerezza piana e infinita. Lei teneva il seno con una mano e lo porgeva. E lui lo succhiò, come figlio succhiò, scoprì il sapore della madre, succhiava guardandola in quell’espressione di amore pace. Lasciò il seno e si avvicinò alle sue labbra che tremarono, la baciò, come amante la baciò, la madre rispose con una morbida totalità sconosciuta, col languore di stanze antiche in penombra, luoghi di intimità che accoglie. Lei lo prese per mano e lo condusse a letto, si distese, aprì l’accappatoio.
Carmine si adagiò al suo fianco.
Maria si aggrappò alle sue spalle e infilo il suo corpo nell’ansa di quello del figlio che rimase con dorso teso a sorreggere la madre. Lei le offri le labbra e la tenerezza si ripeté, non si staccarono per lungo tempo, fino a quando lei non si impossessò del pene e lo depose tra le labbra della vagina.
Lentamente lo fece penetrare e quando tutta ne fu invasa si illanguidì sul corpo del figlio persa alla ricerca dei tempi che lo aveva tenuto. Carmine si sentì preso in odori e sapori che aveva già conosciuto e che ora tornavano dal profondo. Rimasero al lungo così, senza aver bisogno d’altro. Si assopirono l’uno nell’altra, ogni tanto aprivano gli occhi, si sorridevano e si riaddormentavano. L’alba li colse ancora uniti, Maria cominciò a baciarlo, a muoversi lungo il suo corpo fino a quando il pene non riprese il desiderio del figlio per la madre.
Si amarono fino a quando il seme non si depositò nel suo ventre. Dormirono.
Al risveglio furono colti da meraviglia, non provarono alcun peso per quello che era accaduto. Si esplorano, si assaggiarono, si annusarono, si percorsero con tocco delicato delle dita, si scrutarono poro per poro, pelo per pelo, neo per neo, si misurarono a palmi e dita. Avevano due nei allo stesso posto, le caviglie uguali, lo stesso colore della pelle, l’attacco delle natiche era simile.
Lentamente il desiderio riprese, desiderio di confermare l’appartenersi profondo, e anche di confermare la leggerezza finale seppure sconvolgente. Si ricongiunsero ancora, il piacere li colse e li avvolse, si amarono con la coscienza presente di madre che si congiunge col figlio, unico uomo che può congiungersi e appagare la donna così profondamente e totalmente, con la coscienza presente di figlio che penetra la madre come la più tenera delle amanti possibili, unica donna che può essere principio e fine per un uomo.
Non uscirono dalla stanza per tutto il giorno e ancora la notte si congiunsero. Lei lo cullò, gli porse il seno, lo tenne stretto per proteggerlo dagli spiriti cattivi, lui si accucciò nell’incavo del pube, così, finalmente, conobbe la madre, così lei, finalmente, si ricongiunse al figlio.
Dal momento che la sera prima lei l’aveva condotto al letto non profferirono parole, si parlarono i corpi, con gli sguardi, gli odori, i sapori, i sorrisi, gli sfioramenti delicati o forti, i sentirsi individuali che si incontravano per attimi per poi lasciarsi andare ai propri tempi e modi, come tutte le emozioni perse si fossero concentrate per essere percorse e vissute in quella stanza del Vermont. Non parlarono perché non c’erano parole per quello che stava accadendo, gli uomini le avevano cancellate, prima ancora avevano creato soglie invalicabili dietro le quali un buio tremendo proteggeva l’inviolabile. Non c’erano parole ma potevano essere create, ma solo dopo, durante avrebbero pietrificato come lo sguardo di Medusa.
La domenica Mattina uscirono nell’autunno dorato delle Green Mountain, i rossi accesi degli aceri, i prati verdi con le foglie danzanti, il cielo blu, guardavano la strada, o in alto al cielo senza riferimenti sospesi, erano in muta comunione.
L’ultima settimana di ottobre la famiglia Johanson accompagnò Carmine a New York dove un aereo lo riportò in Italia.