Vittorio

La madre seduta sulla seggiola, mani poggiate sulla pancia gonfia, aspetta le figlie uscite per comprare una carta di maccheroni, il padre davanti allo specchio versa la brillantina nel palmo della mano, friziona i capelli, passa il pettine per attaccarli al cranio, Vittorio entra.
Quanto hai fatto di mancia?, chiede
160 lire
Vieni qua
Perché?
Vieni! si avvicina, gli ammorza un braccio, gli infila le mani in tasca, tira fuori gli spiccioli, 280 lire, un manrovescio, Vittorio sbatte contro una sedia, poi a terra.
Uh maronna mia, ma che maniera è chesta! Urla la madre
T’scommo e sanghe a prossima vote.
Mette gli spiccioli in tasca, si siede a tavola, sti cazz e maccarun ‘nun ‘e putiva accattà primma?
Vittorio è andato al lavandino, si butta acqua sullo zigomo, ha un taglio provocato dall’anello.
Arrivano Maria e Carolina con i maccheroni, la madre strappa la parte superiore della carta blu, tira fuori ‘e ziti, insieme alle figlie li rompe nel piatto, li versa nell’acqua che bolle, dà una girata al sugo.
Tu è piglià na’ fatica vera, nun ‘o vuò capì? E allora t’ho faccio capì io. Te ’ne ji a parte ‘e coppa’, ‘e capito?
Dammi un po’ di tempo, cambio lavoro, trovo uno che mi paga bene, aspetta, fammi trovare.
Facenno ‘o barbiere?
Perché no?
Quanto danno a un barbiere completo che lavora nel salone? trentamila? cinquanta? Che ti credi che non ho chiesto? Sti soldi a te, li daranno forse forse fra 4 anni. Sono sei mesi che dici di aspettare, sei mesi con le mance, a Milano fai tremila lire per una giornata.
Ma io voglio rimmane’ cà.
Allora va a ‘rubbare! Se vuoi rimanere devi portare i soldi, hai capito? O porti ‘e rinari o te ne vai.
Tutti gli altri padri lavorano per tenere la famiglia, perché tu no? Perché tu non lavori mai?
Stu piezz’e merda, tu vuoi dicere a parete chello ca’dda fa’?
Si alza dalla seggiola, “ma ie t’accire”.
S’avventa su Vittorio con il suo quintale, l’anello quadrato, la capsula d’oro, i baffi neri, la calotta unta, le lunghe unghie dei mignoli, la nicotina appiccicata tra l’indice e il medio, il pantalone sotto la pancia, le scarpe lucide.
Strunz, vattenne a vie e fore! Afferra il collo e un braccio e lo spinge verso la porta sulla strada.
Stu chiarchiusiello aviza a voce annanz’o’patre!
Fèrmate Pascà, fèrmate, pà’ammore e’Ddio, dai fornelli la madre cerca di intervenire.
Gli prende il collo davanti, gli sbatte la testa al muro, i pollici spingono sotto al pomo e gli tolgono il respiro, Vittorio si dimena, affonda le dita nelle palle con tutta la forza e strappa, pinza e strappa, il padre molla il collo urlando, Vittorio rantolando si allontana, il padre piegato si tiene le mani tra le gambe: risgraziato, a vita toie è fernuta! Risgraziato!
Marì, Carulì, currite, chiammta aiuto, currite, urla la madre.
Vittorio prende il palo di ferro che di notte serra la porta e mena al corpo, alla testa, al pavimento, al muro, si ferma a respirare, le sorelle aprono la porta verso in cortile, Venite, currite, si stanna accirenne.
Omme ‘e merda, parassita, schifuso, ‘e furnuto ‘e cumanna’. E pe’ figliole che propositi facivi? Asp’ttavi che criscessero pe’ purtà n’coppa a nazionale?
Il padre trema, la camicia chiazze di ruggine e sangue, il corpo è un fremito, Vittorio riprende a sprangare il collo, le spalle, il bacino, il padre non si muove ma lui picchia, picchia ancora, ancora fino a scoppiare, si lascia cadere lungo la parete con gli occhi che controllano l’ammasso ammucchiato sul pavimento.
Carmelì ma che sta’ succerenne?
Due vicini di casa sono entrati, vedono Vittorio appoggiato al muro, si avvicinano a Pasquale, chiamano, lo scuotono, chisto nu’n se move, chiammat ‘o mieraco, o’spitale, ci’ vo’ l’ambulanza.
Carmela si è seduta sulla scala di legno che porta alla camera da letto.
Fuori s’è adunata la gente del vicolo, dentro hanno girato Pasquale a pancia all’aria, hanno messo un cuscino sotto il capo, l’aceto al naso, gli spruzzano acqua sulla faccia, un altro porge un bicchiere d’acqua a Vittorio, una donna è andata alla Salumeria vicina a telefonare.
Chist’è muort, mormora l’uomo che sta su Pasquale, nu’n s’ move, nu’ rispira, senne chiammà e’ carbnieri.
Vittò, ‘a vere’ ca’ ià fa’
Vittò chillo parete è muorto.
Vittò ‘a fatto nu uaio ruosso assaie.
Vittò si te ne vuo’ fuì ‘a fa mo’, tra poco arrivano e carbinieri.
Tu aie accise a ‘parete, Vittò eh capito?
Chist sta nzallanuto.
Chiste è guaglione.
Chiste s’è arruinata a vita soie.
Vittorio rimane seduto sul pavimento, le spalle al muro, la sbarra di ferro poggiata sulle gambe, è ancora lì quando arrivano i carabinieri e lo portano via.


Aveva allora quindici anni, era il quarto di sei figli, minuto ma tenace, giocava ala destra nella Juniores, a scuola aveva resistito fino alla seconda media, bocciato, il padre lo spedì a bottega, barbiere, lavare capelli, insaponare barbe, camice bianco la mattina in attesa dei clienti davanti la porta del Salone, il lavoro concentrato nella serata, il sabato fino a mezzanotte ed oltre. Aveva capelli a boccoli ribelli, neanche il mestiere li piegò, era brusco di modi, puro, essenziale, efficace, come le linee rette che tracciava lungo la fascia destra, come i rasoterra filtranti al centravanti che scattava, come l’amore che portava e che mai pronunciò, la sua qualità? Si faceva trovare sempre dove diceva di stare.
Gli diedero nove anni, tre a Nisida e sei a Poggioreale.
A Nisida imparò il mestiere di saldatore, a Poggioreale apprese che in carcere non si sta da soli. Nella prima settimana lo battezzano ogni notte.
Poi un suo compagno di cella gli disse ”se vuoi che finisca ti devi mettere a disposizione do’ trumbettiere”.
Diman’ aì a’ vasà ‘e mmane soie, e’ capito? Si nun‘o fai, ti fotte a’ sanghe mezza Poggioreale.
Con la protezione di Paolino ‘o trumbettiere da piglianculo passò a barbiere di uno dei tanti clan napoletani. Uscì tre anni prima per buona condotta, la madre e le due sorelle da anni si sono trasferite a Torino, sono a casa del primo fratello che lì vive e lavora. Vittorio si appoggiò per un paio di settimane da uno zio, poi prese una camera da solo, frequentava Rinaldo delle pompe funebri, come gli aveva raccomandato don Paolino. Porta il carro da morto, prepara le casse, lavoro di qualche ora al giorno, tutto il tempo per dedicarsi ad altro, le carte da gioco, il biliardo, cercare una donna, la politica, tenere sotto controllo il territorio per il mandatario del paese.
Compiti: intervenire nel caso altre agenzie di pompe funebri prendono funerali al paese; portare avvisi a chi sgarra, recuperare refurtiva, tipo autoradio, televisore, automobile; collocare bombe; incendiare negozi; picchiare renitenti.
Il suo stipendio è buono e ci sono gli extra che sono ancora più buoni, ma non è proprio quello che si aspettava dalla vita, a lui bastava fare il barbiere. Gli occhi sono scavati, al taglio sullo zigomo se ne sono aggiunti altri due alle arcate sopraccigliari, gli manca un pezzo d’orecchio e il setto nasale è rotto. E’ taciturno, distaccato, partecipa però alle attività politiche degli anni 60 e 70, è a tutte le manifestazioni, contro il governo, contro l’imperialismo, contro i fascisti, per la liberazione del Vietnam, contro Pinochet, e il primo maggio, il 25 aprile, e tutto il rosario delle processioni di quegli anni.
Una sera al circolo Ho Ci Min si parlò in sua assenza delle chiacchiere su Rinaldo e i suoi lavoranti, di come loro ti trovavano e consegnavano la macchina rubata per duecentomila lire, di come nessuna agenzia di pompe funebri accettava di prendere funerali al paese.
Bisogna trovare il coraggio di parlare con Vittorio presente.
Qui si scherza col fuoco, non è mica la guerra a don Riccardo e alla chiesa, questi fanno male.
Ma Vittorio è un compagno o no? Se è un compagno dobbiamo parlargli.
E a lungo si parlò, politicamente si parlò, con affetto e preoccupazione si parlò. Lui ascoltò a testa bassa, la scuoteva, sguardo acuto, indagatore, rapido, e di nuovo giù, si toccava i calli del palmo, poi le nocche, stirava un dito, poi quello appresso, congiungeva le punte delle scarpe, le allargava. I compagni si alternavano, si sovrapponevano, gli interventi erano accorati, analitici, accusatori, indagatori, comprensivi, ma alla fine di tutto, anche se mai chiaramente pronunciata, la richiesta fu: o ci dimostri che sono solo chiacchiere quelle che si dicono in giro, oppure, se sei un vero compagno, te ne tiri fuori.
Ho capito, ma non ho niente da dire, ne’ che avete ragione, ne’ che avete torto. Solo che questa chiacchierata mi ha fatto piacere. Ci penserò.
Rinà, io sono stanco di fare certe cose, vorrei rimettermi a fare il barbiere, oppure andare a lavorare all’Alfa sud.
Tu ‘o ‘saie che hai messo ‘na fede al dito, ‘na fede che non puoi togliere.
E non voglio togliere, sto chiedendo il permesso di fare un altro lavoro, di non occuparmi di certi affari.
Non ti posso rispondere, anch’io devo chiedere, tu lo sai.
Ma tu mi appoggi o ti opponi?
Vittò, non mi sono mai lamentato di te, mi dispiace perderti, ma se questo è quello che vuoi per me puoi andare.
Sarà tutto come prima, chiedo solo di non essere usato per certi lavoretti. Mi faccio i fatti miei, mi apro un salone, oppure provo ad andare in fabbrica.
Vedremo. Però un consiglio te lo do subito. Stai attento ai tuoi amici rivoluzionari.
Tu sai che io non ho due parole. Quelli non c’entrano, a me piace pensare che ci può essere anche un’altra strada.
Chiacchiere Vittò, quelli fanno solo chiacchiere, tanto i problemi li risolvono papà e mammà. Sappiamo i discorsi che si fanno là dentro, sappiamo pure quelli che hanno fatto a te, ad ogni modo ti tengo informato.
Un mese dopo Rinaldo comunicò a Vittorio la decisione. Si può fare, ma ci devi dare tutte le informazioni che ti chiederemo. Poi può darsi che ti chiediamo un certo lavoretto, e tu non puoi rifiutarti.
Non bastano le informazioni?
E’ la garanzia. In compenso ti aiuteremo ad entrare all’Alfa Sud. Come operaio specializzato Vittò, e non ti fermerai lì.
E che informazioni posso dare?
Tu non ti preoccupare. Se accetti, è fatta.
A Febbraio del 73 Vittorio iniziò a lavorare alla lastrosaldatura, comandava e controllava le maschere di saldatura che calavano sulle parti della carrozzeria e le univano. Il reparto operava 24 ore su 24, su quattro turni, 6-14, 14-22, 22-6 e 8-17. Ogni settimana le maestranze ruotavano.
A maggio dello stesso anno, a un’assemblea sindacale si avvicinò Ciro, un operaio delle presse che era intervenuto poco prima.
La discussione proposta dal Consiglio di Fabbrica era la questione della cassa integrazione ad Arese, la necessità di tenere unita la lotta tra tutti gli stabilimenti Alfa, l’applicazione del diritto allo studio e la concessione delle 150 ore di permesso ottenute col contratto del 73.
Vittò, abbiamo bisogno di te. Aimma fa nu’ poco ‘e ‘mmuina.
Abbiamo chi?
Vediamoci fuori, ti aspetto nel piazzale fra dieci minuti.
Ciro fumava appoggiato alle lastre di cemento delle sellerie, lo raggiunse.
Ti ricordi di Rinaldo sì?
Sissignore, allora?
Ci risulta che al tuo reparto ci sono poche fermate.
E’ tutto automatizzato, noi controlliamo solo il processo, praticamente gli incidenti sono impossibili.
Agli uomini, ma alle macchine? Si deve bloccare il reparto e si deve pure capire che è stato un incidente provocato.
Questo per chi? Per gli amici o per le lotte operaie del tuo intervento in assemblea?
Per tutte e due Vittò. Però qui non stiamo discutendo nell’assemblea sindacale. Ci siamo intesi?
Vittorio rispose che non prendeva ordini da lui, che si sarebbe informato da Rinaldo, e che dopo avrebbe deciso.
Sei voluto andare in fabbrica, e ora devi stare a sentire Ciro “scarzellitto”. Vittò fai quello che ti dicono di fare, gli rispose Rinaldo.
Nei mesi a seguire le fermate alla lastrosaldatura raddoppiarono, maschere che si inceppavano, saldature difettose, rivendicazioni sulla sicurezza, scioperi di reparto e cortei interni, quella micro conflittualità diffusa di una certa strategia di sindacato rivoluzionario che tanto piaceva anche all’azienda, mentre dispiaceva al sindacato e al Consiglio di Fabbrica che cercavano il governo complessivo della lotta sul posto di lavoro.
La lamiera che viene dall’URSS fa schifo, arrugginisce subito, le saldature non tengono, per risparmiare sui costi hanno preso materiali scadenti ed ora noi operai dobbiamo pagarne le conseguenze. L’aspirazione dei fumi non ancora funziona, qui ci ammaliamo. Stanno sperimentando nuove paste, non ci dicono cosa sono, la settimana scorsa due ricoveri per malori.
Vittorio era diventato un riferimento del reparto lastrosaldatura, gli operai lo seguivano, avevano intenzione di proporlo come rappresentante nel Consiglio di Fabbrica. Cominciava a frequentare un circolo legato all’Autonomia Operaia, lo aveva introdotto Pino, vecchio militante di Potere Operaio che allo scioglimento del gruppo aveva seguito la linea della costituzione delle autonomie per un partito rivoluzionario.
Nelle riunioni si discuteva dell’attacco da portare alla organizzazione capitalistica del lavoro in fabbrica, di saldare questa lotta ad interventi contro il potere politico e le sue articolazioni sul territorio. Si discuteva di violenza proletaria, della lotta alla subalternità delle linee sindacali. Al gruppo partecipava qualche volta anche Ciro, che però ci teneva a dire che lui rimaneva un cane sciolto, che non si metteva con nessuno perché c’era un po’ di verità in tutti i gruppi rivoluzionari.
Si discuteva delle azioni dei primi gruppi che praticavano l’uso delle armi, molto delle BR di Curcio, Franceschini e Cagol.
Fu il periodo in cui Vittorio sentì che la lotta politica rivoluzionaria e la Camorra avevano punti in comune, che si potevano fondere insieme le due esperienze. L’appartenenza dell’organizzazione camorrista, intesa come solidarietà, difesa degli affiliati, regole organizzative ferree, disponibilità fino alla vita stessa, pratica della violenza, rifiuto delle leggi, tutto questo poteva essere messo al servizio di obiettivi rivoluzioni per costruire una società di eguali, dove tutti potevano scegliere liberamente il proprio destino. Dunque molti affiliati potevano diventare dei rivoluzionari, e i giovani rivoluzionari potevano apprendere come organizzarsi dalla camorra.
Ne parlò con Ciro, prese contatti con vecchi amici, con le sue conoscenze di Nisida e Poggioreale. Ricevette alzate di spalle, risate di scherno, qualche approvazione a parole e un incontro interessante, Gennaro “‘o ‘scuorfano”.
Gennaro, era stato a Nisida con lui, era stato pure un paio di volte a Poggioreale, ma roba di poco. Proprio dopo l’ultima vacanza aveva conosciuto Vitaliano, e aveva cominciato a frequentare i Nap, Nuclei Armati Proletari.
Questi agiscono tra gli ultimi degli ultimi, i carcerati. L’idea è un po’ come la tua, loro riconoscono in parte del crimine un rifiuto e una rivolta contro questa società. Lo scopo è di dare una finalizzazione cosciente e chiaramente politica all’azione cosiddetta criminale.
E cosa dicono di organizzare?
Un movimento dei detenuti con rivolte generali nelle carceri, fuori atti insurrezionali ed espropri proletari, ma non quelli che si fanno durante le manifestazioni quando si entra in un negozio e si prendono oggetti, neanche il rifiuto di pagare i servizi di trasporti o le bollette, no, cose in grande, assalto alle banche, finanziamento diretto dell’organizzazione rivoluzionaria. Svaligiano banche, armerie, tutto quanto serve alla costruzione di un’organizzazione armata rivoluzionaria.
L’incontro con Gennaro fu una svolta, per la prima volta un’idea tutta sua incrociava quelle di altri che autonomamente erano arrivati alle stesse conclusioni.
Conobbe Vitaliano e altri dei Nap napoletani. Mise a disposizione le sue competenze in campo di esplosivo e di sistemi per provocare incendi. Parlò di patto organizzativo tra gli aderenti, non un giuramento camorrista, ma un impegno che metteva in gioco non solo l’idea ma la persona tutta. Nell’autunno del 74 predispone gli altoparlanti autoesplodenti che servirono alle azioni di fronte alle carceri di Poggioreale.
Praticamente un comizio registrato alla fine del quale l’impianto esplodeva. La polizia non poteva bloccare l’apparato amplificatore perché questo esplodeva, così si chiamavano alla rivolta i detenuti.
“Noi non abbiamo scelta: o ribellarsi e lottare o morire lentamente nelle carceri, nei ghetti, nei manicomi, dove ci costringe la società borghese, e nei modi che la sua violenza ci impone. Contro lo stato borghese, per il suo abbattimento, per la nostra autoliberazione di classe, per il nostro contributo al processo rivoluzionario del proletariato, per il comunismo, rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei esterni”.
Dalle carceri al territorio politico, Vittorio partecipa agli attacchi alla sede dell’UCID e della DC napoletana.
Fu dopo l’attacco alla sede della DC che Ciro si fece di nuovo vivo.
Stai facenn’ troppa ammuina Vittò. Ti devi dare ‘na calmata. O’ trumbettiero ti vuole parlare.
O trumbettiero? Ma non sta a Poggiorelae?
E questo non è un problema.
Lo introdussero nelle carceri col furgone del pane, si incontrò con Paolino o’ trumbettiero dietro le cucine.
T’e’ fatto ruosso Vittò.
Ho sempre rispettato tutto quello che dovevo don Paolì.
E proprio pecché si nu’ buono uaglione che ti ho fatto chiamare. Vittò sti Nap ci danno fastidio. Nui sapimmo che a te ti piace ‘a politica, e ci ha fatto piacere comme ’e mis’ apposto le cose a Pomigliano. Ma sti Nap lasciali perdere. Finché si tratta di banche, armerie, stazioni di carbinieri, ma quando tocchi gli imprenditori e la DC tu pazzii co’ fuoco. Troppa polizia, gli affari vanno male, gli amici si lamentano. Nuie vulimme ca’ nu’ succerano altri attacchi ai politici. E poi, ma che sarebbe chesta Camorra rivoluzionaria? Stai mettenne in giro strane idee a chisti ‘uagliuni Vittò.
Don Paolì, è un salto avanti, non più qualche miserabile che si conquista un posto al sole, ma l’assalto al potere, la soluzione definitiva dei nostri problemi.
Vittò te’ fatto ruosso, ma a capa toie sta ancora ‘a pazzia’.
Don Paolì ditemi a chi devo rispondere.
Statte’accorto Vittò. Poi ci facimmo sentì, tu statte accorto.
Il discorso del camorrista non gli era piaciuto, da quando aveva lasciato le cucine cercava di capire questa sensazione di distanza e la trovò: non gli aveva dato il riferimento.
“Ci facimm’viv’nuie”.
“Statte’accorto”.
Non si fidavano più di lui. Si presentò da Ciro.
Nessun problema, non ci sono commissioni.
Lo avevano messo fuori. Questo voleva dire che nei Nap c’era qualcun altro che faceva riferimento alla Camorra, che si erano convinti che le sue azioni non nascevano per eseguire ordini degli amici ma per autonoma convinzione a carattere politico. Chiese di parlare con Rinaldo.
Nu’ pozz’fa niente Vittò.
Agganciò ancora Ciro, gli parlò delle sue convinzioni.
Ti ricordi, quando ti chiesi per chi lavoriamo, tu dicesti per tutti e due, per gli amici e per il movimento operaio rivoluzionario. Io ci ho creduto, e adesso mi fate capire che io sono fuori. Io non ho mai sgarrato.
Non è questo Vittò, è chi viene prima. Per te viene prima la rivoluzione, vuol dire che tu non prendi più ordini. Vittò deve venire prima l’onorata società.
Ma tu che stai nel Consiglio di Fabbrica, tu che fai quegli interventi in assemblea, come la pensi tu?
Vittò pure a me piaciono ‘e fantasie, ma tengo moglie e figli. E proprio per questo Vittò, non ti rivolgere più a me, sinnò ti devo trattare male davanti a tutto il tuo reparto.
Poteva anche impegnarsi a non mettere in piedi azioni contro i politici e contro le istituzioni, poteva anche non agire più nella zona, poteva chiedere trasferimento ad Arese, ma il punto non era questo, avevano ragione loro, per lui la priorità era politica. E questo loro non se lo potevano permettere.
E poi, come aveva fatto a non pensarci, il pericolo maggiore era il reclutamento, i giovani sceglievano la politica anziché l’affiliazione, e le idee rivoluzionarie insegnavano il rifiuto della gerarchia, la partecipazione alle scelte. La Camorra e il sistema capitalistico sono la stessa cosa, stesse gerarchie, stessi controlli, stesse leggi, stesse disuguaglianze, la Camorra non è l’antistato, è una falsa alternativa, è complementare, la Camorra è solo uno dei tanti soggetti del potere capitalistico.
Non bastava starsene fermo perché ormai le sue parole, le sue azioni viaggiavano, vivevano tra i giovani e gli affiliati più di quanto immaginasse, per questo don Paolino lo aveva fatto arrivare in carcere, manco fosse un suo padrino. L’assalto al potere, la soluzione definitiva ai nostri problemi, gli aveva detto con entusiasmo. Che scemo, entusiasmo politico, anni luce da come parla l’affiliato, aveva firmato la sua condanna a morte.
Ci facimmo vivi nuie. Sarà solo questione di giorni.
Se ne sarebbe occupato uno dei suoi amici del paese, o uno della fabbrica, Ciro o uno dei Nap, magari mentre preparava una carica di esplosivo.
Ne parlò con Vitaliano e con Alfredo, per la prima volta si raccontò, dall’omicidio del padre all’ultimo incontro con don Paolino. Vitaliano e Alfredo non ne furono sorpresi, avevano considerato da tempo che alcuni nappisti potessero essere camorristi, anche che alcune loro azioni potessero fare il gioco della camorra. Non avevano preso in considerazione però il vero pericolo che avevano creato all’organizzazione criminale.
Vittò, non abbiamo considerato che al punto come stanno le cose il nostro peggior nemico non sono più le forze dell’ordine al servizio dello stato, ma le organizzazioni mafiose. Vittò queste ci mettono KO nel giro di una stagione. Abbiamo una sola possibilità di salvare la nostra esperienza, confluire nelle BR. Alfredo si deve cominciare a discutere questa scelta.
Ed io, e quelli come me che vengono dalla Camorra? Noi rimaniamo scoperti.
Tra di noi non possiamo ingannarci, non abbiamo la forza e la struttura per difendere le persone che loro volessero colpire. Puoi darti alla clandestinità, ma tu lo sai che loro ti raggiungeranno comunque. Forse puoi riparare all’estero.
E come? senza soldi, senza passaporto.
Stiamo organizzando una rapina a Perugia. Se vuoi ti propongo, parlerò della tua situazione.
Il fatto è che gli affiliati infiltrati sapranno.
E’ uno cosa di pochi giorni, non faranno in tempo. Mettiti in ferie, vai a Perugia, una parte dell’esproprio è tua, intanto prendo subito contatti per il passaporto.
Così non cambia niente. Se io scappo tutti i giovani ritornano dai boss. A Perugia ci vado ma non sono sicuro che dopo scappo.
L’esproprio andò bene, 118 milioni, ne fecero altri a Umbertide, Gubbio e Foligno, misero assieme 430 milioni, espropriarono un’armeria, portarono via pistole, fucili e pallottole.
In una banca il fazzoletto scivolò, fecero l’identikit di Vittorio, ritrovarono le sue foto negli archivi, le diffusero a tutte le polizie nazionali, fu costretto alla clandestinità. I suoi espropri girarono per tutti gli ambienti malavitosi, si poteva resistere alla Camorra, servire altre cause, una criminalità centrata sull’alterità, una criminalità etica, un nuovo modello per il ribellismo giovanile, più problemi per la camorra e meno vita per lui.
Non rimaneva in un luogo più di una settimana, le sue azioni si concentrarono nelle aree di Firenze, Milano e Torino.
Nell’autunno del 75 era con le BR, partecipò alle spedizioni punitive ai dirigenti aziendali, ritornò alle rapine fino all’estate del 76, durante l’inverno si impegnò sulle caserme, le sedi politiche e sindacali.
Alla fine del 1976 i vari gruppi armati avevano prodotto 1198 atti terroristici:
340 sedi politiche (154 DC, 103 MSI, 77 PCI, 4 PSDI, 2 PDUP);
124 sedi di caserme di polizia e dei carabinieri;
140 sedi di scuole;
50 sedi di sindacati;
19 carceri;
22 a fabbriche e giornali;
51 sommosse e 559 evasioni dalle carceri.
Vennero uccisi 42 appartenenti alle forze dell’ordine e 47 vennero feriti.
Era cominciata la guerra di classe, ma non la immaginava così la rivoluzione, si aspettava di trovarsi di fronte a chi aveva la responsabilità del male, l’incarnazione del potere da battere. E invece erano solo uomini e donne come lui, che tremavano davanti alla sua pistola, che non capivano di quali crimini si intendesse punirli. No, questa rivoluzione non gli piaceva, troppo simile ai lavoretti che doveva eseguire per Rinaldo, e poi anche qui c’erano decisioni che calavano dal Comitato Esecutivo.
Si ritrovò a pensare alla barberia che voleva aprire da ragazzo, all’assassinio del padre, ai giorni di Nisida e a quelli di Poggioreale, allora non si poneva domande andava. Immaginava sempre un’altra strada, tante altre strade possibili, e invece ora il suo futuro si restringeva, fino a diventare un unico cunicolo obbligato, ora a 26 anni la sua vita era finita. Davanti a se la morte, per mano di un poliziotto o di una guardia giurata, oppure per mano di Camorra. Anche il carcere voleva dire morte, per mano di camorra, e non solo di camorra ché gli assassini politici erano pure di più di quelli camorristi.
Ma non era questo il punto, ché da quando aveva ucciso il padre la morte se la portava appresso, il punto era che non vedeva possibilità di riscatto per nessuno. Aveva resistito quasi due anni, centinaia e centinaia di giovani si erano avvicinati alle organizzazioni combattenti, il ribellismo giovanile che poteva confluire nelle fila della Camorra oggi seguiva anche la sua strada, sicuramente alcuni giovani avevano preferito la violenza politica a quella del crimine organizzato.
Ma anche qui, c’era già chi dentro la Camorra pensava di utilizzare le idee sociali e politiche rivoluzionarie per creare una Nuova Camorra, e poi, che mondo nuovo poteva venire fuori dalla violenza che stavano praticando?
Decise di usare il Passaporto e un po’ dei milioni delle rapine.
Si imbarcò per il Brasile nella primavera del 77, si perse tra le favelas di Rio.


Nell’estate del 2002 al Social Forum di Porto Alegre fui avvicinato da un cinquantenne che si presentò come un italiano che da anni aveva preso la cittadinanza brasiliana. Si chiamava Ignatio, aveva una barberia in città, sposato e con 2 figli che studiavano all’università per stranieri di Perugia. Aveva una vecchia storia da raccontare, una storia degli anni 70, di quando la rivoluzione divenne l’incubo che rese pesante il cuore di una buona generazione.
Almeno uno si era salvato.