La storia comincia nel 2008, durante quell’estate che mi vedeva impegnato ad organizzare, lungo il fiume Liri, e precisamente nel nascente parco Viscogliosi, un percorso d’arte pubblica/ambientale. Allora cercavo, da Sora a San Giovanni Incarico, storie da rappresentare, storie dai tempi della ninfa Marìca fino alla nascita e alla scomparsa del polo industriale cartario di Sora – Isola del Liri.
In autunno un’amica che mi aveva raccontato alcune storie di Anitrella mi invitò a una passeggiata picnic che partiva dalla piazza del borgo, frazione di Monte San Giovanni Campano, e giungeva sulle sponde di un lago artificiale più a valle. Per arrivare a Anitrella dalla SS 82 della Valle del Liri, bisogna attraversare un ponte posto su una cascata: sul lato destro del ponte la cascata si presenta con un ampio anfiteatro addomesticato dall’uomo allo scopo di raccogliere ed utilizzare l’energia idraulica del fiume, sul lato sinistro prosegue infilandosi in un buco di cui non si riesce a vedere il fondo ma da cui proviene un rumore assordante. Anitrella fu, grazie alla forza delle acque della cascata, agglomerato industriale cartario, mentre oggi, come per tutti gli altri paesi rivieraschi, dopo la chiusura delle industrie della carta, è un non luogo alla ricerca di una identità e di una vocazione per il futuro. Fino al 1870 il ponte era transito di frontiera tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio, da una parte Arpino, antico centro laniero che arrivò a contare fino a cinquemila addetti al ciclo produttivo, dall’altra Monte San Giovanni, a cui si aggiungerà “Campano” nel 1872 per evitare la confusione con un altro comune del reatino.
Noi Monticiani non abbiamo niente in comune con quelli di Arpino, Sora, Isola,…., non la lingua, non gli usi e i costumi, siamo diversi perfino fisicamente. Loro Terra di Lavoro, noi enclave autonoma, né Volsca né Ernica. Il confine che ci ha separati è sempre presente, d’altra parte esso era ben più antico dei tempi dei Borboni e dei papi. Se senti la parlata, qui trovi tante parole provenienti direttamente dal latino, non c’è la cadenza napoletana degli isolani, né i suoni duri dei verolani, la nostra parlata è dolce, c’è la musicalità latina dei Cereatini (abitanti dell’antica Cereate, città romana nei pressi dell’attuale Casamari). Loro sono sbrigativi negli affari, due secoli fa, francesizzati, si lanciarono a sfruttare la forza del Liri, i lanieri scesero da Arpino e si misero a produrre feltri, ghisa e carta, crearono ricchezza ma anche tanta distruzione, insozzarono il fiume e le loro anime, ancora oggi non hanno i depuratori, inquinano al ritmo del blues.
Un discorso diametralmente opposto lo senti ad Isola, Verolani e Monticiani baciapile, se non gli portavamo le industrie andavano ancora con le cioce a genuflettersi al papa re. Le industrie non le rifiutarono affatto, prova ne è proprio Anitrella, ancora oggi lì c’è la centrale idroelettrica che succhia la forza delle acque. Sono solo degli ipocriti, come tutti i baciapile.
Folclore campanilistico? Non proprio e non solo, le differenze della parlata sono effettivamente molto marcate. Anche l’uso del territorio è diverso, più spregiudicati gli isolani, più attenti e delicati i Monticiani; Isola si gemella con New Orleans, altro luogo sfida alle forze della natura, Monte San Giovanni Campano si apparenta con San Prospero, anonimo paese emiliano. Isola, centro industriale e centro del movimento operaio ciociaro, si perde con la chiusura dell’ultima grande cartiera, le Cartiere Meridionali, Monte San Giovanni Campano rimane ancorata alla terra, elemento identitario anche durante il periodo industriale, cosicché la prima oggi si definisce città del blues, la seconda città dell’olio. Isola è guascone che azzarda, Monte San Giovanni Campano procede col passo lento e pesante delle cioce.
In quei giorni andavo proponendo di associare i comuni rivieraschi, da Sora a San Giovanni in Carico, per un progetto di tutela del fiume e della sua archeologia industriale composta da splenditi resti, mi toccò invece scoprire che ogni comune aveva un motivo di divisione col vicino, storie antiche, lontane nei secoli, eppure presentate come prevalenti, storie che alimentavano diffidenza e scetticismo.
Partecipai alla passeggiata, una processione laica carica di domande ma anche di rassegnazione, come di un tentativo di rapporto privo di sostanza, una pia intenzione destinata a rimanere tale, una delle tante manifestazioni che tentano di ricostruire un rapporto col fiume.
A cosa serve un fiume oggi, si chiedono le genti orfane delle antiche risposte e prigioniere di un orizzonte economico e meccanico. La domanda dovrebbe essere sostituita da un’affermazione: il fiume è, non esiste per essere a mia disposizione, il fiume è un essere vivente che si muove nel territorio secondo le sue esigenze e come tale va rispettato senza alcuna subordinazione. Di questo discorrere davanti a un aperitivo monticiano (se vi invitano non vi fate ingannare dalle parole, si tratta di un ricco pasto di varie portate e di abbondanti libagioni) più delle questioni del rapporto col fiume mi rimase il mito del confine che resiste, ancora invalicabile dopo 150 anni dalla sua abolizione.
Mi convinsi che il rafforzamento delle identità localistica era conseguenza della globalizzazione, più l’invasione del globale si fa sentire più si rinserrano le fila, davanti all’incommensurabile ci si affida al feticcio del misurabile. La globalizzazione è un’altra forma di dio, le persone ripiegano verso la creazione religiosa, come accadde migliaia di anni fa davanti al mistero della natura, dio è più rassicurante del mistero, al contrario delle sue attribuzioni egli è commisurabile, definibile, il mistero no.
L’assessore alla cultura di Monte San Giovanni Campano, durante l’aperitivo, mi aveva raccontato dei cippi di confine posti dai borbonici e dai papalini, del Pozzo Faito diviso in due dal confine, del trono del re dei pastori, cosicché, preso da questi racconti, mi misi alla ricerca di questi luoghi e di questi resti; ma per imperizia o cattive indicazioni non fui capace di trovare uno solo degli elementi che mi furono descritti. Venne l’inverno e altre stagioni, fui preso da altri miraggi, fino a quando la redazione de “Il piede e l’orma” non decise di occuparsi dei “margini”.
Occuparmi dei “margini” divenne per me occasione per riprendere l’antico progetto, però aggiornato; più delle questioni identitarie, ovvero del tracciar confini, ora mi interessava l’esplorazione delle terre di mezzo, di tutte le linee d’ombra delle nostre certezze, come atto creativo di una ritrovata fiducia nella natura umana, come pratica da contrapporre a tutti i generatori e governatori di paure. Cercare, sentire, la natura delle terre tra quegli antichi confini diventava una doppia esplorazione, fisica e filosofica.
L’Io multiplo anziché unico, la centralità dell’esplorazione dello spazio di crisi Io-Noi, l’impossibilità di definire il singolo, l’individuo, estratto o in assenza della relazione plurale. La ricerca della rappresentazione di un paesaggio non più come buio-luce, abissi-vette, positivo-negativo, aperto-chiuso, amico-nemico, uomo-donna, credente-non credente, dentro-fuori, noi-voi, ma come un continuo di margini valicabili, un insieme dolce e comunicante.
L’esplorazione
_primo giorno
Il primo giorno mi recai al Prato dei Campoli per esplorare il versante est lungo il quale mi proponevo di incontrare i cippi di confine. Nel calzare gli scarponi mi accorsi di non aver preso i calzini adatti e di doverlo fare con ai piedi i fantasmini estivi. Rinunciare? Scelsi di azzardare e mi incamminai per il prato in direzione nord-est. Lungo il percorso una suora con tre donne e un uomo recitavano litanie della Beata Vergine Maria, mi ricordai che era il 12 settembre, giorno del Santissimo Nome di Maria. Procedevano lentamente sotto il sole, ogni tanto la suorina si girava verso gli altri che rimanevano un po’ più indietro. Li superai con un saluto ossequioso che accentuò, mio malgrado, il mio stato di sorpresa per un incontro tanto improbabile. Prima di arrivare alla faggeta mi voltai verso di loro, erano fermi, da lontano sembravano piccole pietre disperse tra le altre, che poi erano mucche, cavalli e pecore. All’inizio della faggeta due pastori erano davanti a un bivacco: una roulotte, un paio di recinti, dei serbatoi per l’acqua, un tubo nero che proveniva da monte, due cani attenti, un pick-up. Ma la posa rimaneva quella che ritroviamo rappresentata sui crateri etruschi o greci, leggermente poggiati su un bastone e il corpo a fare arco. Chiesi se sapessero dei cippi. Mi dissero che lungo le vette che circondavano il prato ce n’erano tre, il primo l’avrei incontrato seguendo il sentiero che prendeva a destra.
Mi incamminai e proseguii per una mezzora fino a incontrare dei tagliaboschi alle prese con alcuni faggi segnati, il ronzio delle motosega e il tonfo degli alberi caduti mi accompagnarono fino allo scollinamento di un dosso. Appena il silenzio del vento fu ripristinato mi fermai a consumare il panino al formaggio che mi ero preparato, mi accorsi solo allora di non aver preso l’acqua. Avevo però due mele, proseguii, non prima però di aver usato la carta del panino per fasciare i miei stinchi e così proteggere la pelle dall’abrasione del cuoio. Una mezzora dopo mi apparve il primo cippo.
Secondo i pastori gli altri due li avrei trovati proseguendo verso nord, e così feci.
Incontrai un vallo profondo quattro-cinque metri, un vallo che mi parve artificiale per le ben visibili tracce della terra di riporto presenti su un lato del pendio, sull’altro c’era roccia viva apparentemente non modificata dall’uomo; lo percorsi avanti e indietro immaginando i motivi dello scavo, sembrava non troppo antico, procedendo verso valle mi accorsi di decine di faggi abbattuti e lasciati lì a marcire, mi convinsi trattarsi di uno dei tanti incompiuti italiani, una linea anti incendio iniziata e mai completata. Una volta a casa ho consultato le mappe e mi sono reso conto che quello era il Vado della Rocca, per secoli passaggio obbligato delle transumanze umane ed animali. Ritoccato di recente? Chissà!
Il sentiero non era più segnato, procedevo con l’unico riferimento della linea di cresta, la faggeta ogni tanto si apriva in radure, faggi più bassi, dovevo essere intorno ai 1600 metri.
Le radure erano piene di crochi, non immaginavo avessero una doppia fioritura come i ciclamini, una alla fine dell’inverno e un’altra alle prime umidità che annunciano l’autunno. I faggi diventati ora cespugli lasciavano ampie e frequenti radure, il loro attraversamento era accompagnato dall’odore di timo calpestato dagli scarponi, ma di cippi nulla. Quanto verso nord? Non lo avevo chiesto, il mio procedere era cieco, circondato da faggi che mi impedivano un orientamento a vista, nessuna traccia da seguire, solo procedere nella speranza di trovarmi davanti un cippo di pietra calcarea, pietra tra l’altro mimetica tra le rocce circostanti. Potevo passarci a cinquanta metri e non vederlo, nascosto da un albero, da una roccia, da un piccolo dosso. Torno indietro? Continuai per mezzora ancora, e fu proprio durante questo andare che mi ritornano le parole e i gesti del pastore: il pastore indicava a sinistra col braccio ma con le parole diceva “destra”. Qual era l’indicazione giusta?
Perché ho scelto a sinistra?
Il gesto è più diretto, la parola più artificiale, dunque più vero il gesto! Scopro così un mio agire macchinico privo di fondamento: io valuto vero, più vero il gesto che la parola. Lo faccio senza accorgermene, mi è naturale, ovvero inesorabile macchina che mi confonde, che non mi fa rilevare l’incoerenza, che spesso mi conduce a perdermi, e non solo metaforicamente.
Cosicché ritorno al cippo 192 e procedo nella direzione opposta, cioè alla sua destra. Il cammino è più agevole, la cima è più morbida, le pendenze più costanti, cammino spedito, mi accompagna il fruscio delle foglie secche, sono tante, gli alberi le lasciano cadere per difendersi dalla siccità, due mesi che non piove, la terra è sarchiata da profonde fenditure, in altre zone è resa polvere. Cippi zero, la mia sicurezza comincia a vacillare, sono due ore che procedo senza indizi per opposte direzioni, non una traccia, e soprattutto ho perso il piacere di quel cercare. Il gracchiare delle ghiandaie mi inquieta, non mi accompagna il pensare libero, non “guardo”, sono accecato dall’ossessione di scorgere un pezzo di colonna di calcare. La salivazione per inumidire la gola diventa sempre più difficile, la ricerca è solo sofferenza, ritorno ancora una volta al cippo 192, che da lì il sentiero è segnato e non sbaglio la strada del ritorno. Sono le cinque passate, i tagliaboschi sono andati via, il silenzio mi riconcilia con la faggeta, così posso notare quello che all’andata mi era sfuggito: il sottobosco è un prato di ciclamini, il mattone bruciato delle foglie secche, le fioriture ciclamino, il grigio chiaro e quello scuro delle levigate colonne dei faggi, il verde delle chiome reso tenero dalla luce, il cielo azzurro al di là del verde, io piccolo insignificante dentro pace bellezza che mi commuove.
Sono al bivacco, anche i pastori sono andati via, il Prato dei Campoli è deserto, lo spazio è definito dallo scampanio, delicato quello delle pecore, brusco quello delle vacche che combattono con le mosche; sono tutte distese su un lato e ruminano, l’odore d’erba calda rimasticata mi accoglie quando le attraverso, i grandi occhi mi seguono attenti, loro masticano, rigurgitano e masticano alla sera che viene.
_secondo giorno
Il secondo giorno è il più infruttuoso di tutti, decido di percorrere il confine partendo dal cippo di Castelliri, non riesco a trovarlo, chiedo ai pochi che incontro, non ne sanno nulla, passo a quello vicino al fosso Sant’Elia, niente da fare, percorro più volte il tratto della provinciale dell’Incoronata che va da Sant’Elia e Fontana Fratta, non ne cavo niente, poi vedo seduti sotto una quercia due che sembrano in divisa, forse sono della Forestale. Fermo l’auto sotto un fontanile, risalgo la scarpata, davanti a me un ragazzo e una ragazza, in divisa, ma sono militari impegnati in esercitazioni, chiedo lo stesso. Non conosciamo la zona, siamo qui per impedire che si entri nel poligono di tiro, mi dicono con un forte accento napoletano, lui di taglia grossa, lei minuta, lunghi capelli intrecciati alla Lara Croft. Provi a chiedere a chi abita in quella casa dall’altra parte della strada, ad ogni modo lei oggi non può andare oltre, sulla montagna alle nostre spalle si spara, per questo è interdetta ai civili, domani si può salire. Nell’avvicinarmi alla porta di ingresso due cani mi vengono incontro, abbaiano e mostrano i canini. Dietro di loro un uomo di corporatura possente, in canottiera, domando per salire a Pozzo Faito, mi dà indicazioni a braccio, quello destro si sposta lungo linee, per me invisibili, che percorrono il crinale dei monti che abbiamo davanti: prendi come vanno le vacche e sali, non ti puoi sbagliare, segui il sentiero delle vacche, attraversi la macchia e ti trovi in quel bianco lì, quello ripulito dall’incendio di qualche anno fa? si proprio quello, gira a destra, e continua sempre seguendo le vacche, fino in cima, poi lì diventa difficile perché in mezzo ai faggi ci si confonde. Arriva una Panda, ne scende una donna, la moglie, e due ragazze, le figlie. Eh, ti ricordi quando andammo a Pozzo Faito? Questo signore mi sta chiedendo come fare. E’ stato tanti anni fa, mio padre mi ci portò da Fontana Grande, cioè questa fontana dall’altra parte della strada, io ti ci volli portare dai Cocchi e ci sbagliammo – ride al ricordo -, e giravamo di qua e di là senza sapere dove andare; in tutti i modi, per lei la strada più semplice rimane quella per Fontana Fusa, di qua si perderebbe. Il marito riprende a darmi indicazioni di sentieri di vacche, arriva un altro allevatore, mi dice che la mattina dopo lui deve andare a Fontana Fusa e forse sale su dal bestiame. A che ora? Alle otto, fatti trovare alle otto a Fontana Fusa. Vado via con l’appuntamento, è già qualcosa, ma non troppo, perciò scendo ad Isola Liri, da lì ad Anitrella, fotografo il ponte confine, la cascata, il canale che adduce l’acqua alla centrale Enel. Il centro abitato è deserto, il bar trattoria dell’aperitivo 2008 è chiuso per l’ora pranzo, devo smetterla di andare in giro nella controra.
_terzo giorno
Alle otto e due minuti arrivo alla Fontana Fusa, il pastore è lì che sta azionando una pompa a scoppio. Tira acqua dal pozzo, che poi non è un pozzo sorgivo, l’acqua proviene dalla sorgente che si trova una ventina di metri più su. Mi affaccio e vedo il gocciolamento delle acque dal lato nord. Mi dice che non salirà, mi dà indicazioni per come arrivare a Pozzo Faito, perché ci va? A vedere l’area sacra col trono del pastore. Vuole dire il trono del papa! Mi hanno detto del re pastore, perché del papa? Là una volta c’è salito un papa, e che c’è andato a fare un papa lassù? E’ andato a incontrare un capo dei briganti. Un papa che sale lassù, lei lo vede? Lo avranno portato con una portantina? E che ne so, così ci hanno raccontato e così la racconto. A me hanno detto che su quel trono sedeva il re dei pastori. La storia è questa: il Pozzo Faito era molto importante perché riusciva a dissetare le bestie che stavano al pascolo lassù, e anche quelle che transumavano. Tra i pastori che vi ricorrevano scoppiavano liti feroci, anche con morti, così decisero di regolare l’uso del pozzo e di affidare l’applicazione delle regole a un pastore che ogni anno veniva eletto. L’eletto, il re dei pastori, sedeva su quel trono e da quel luogo di potere indicava l’ordine di accesso alle acque. Insomma un re giudice. I pastori che si mettono d’accordo ed eleggono un re? E’ più credibile quella del papa che incontra il capo dei briganti, sentenzia l’erede dei pastori. Quel pozzo era tanto importante che, nel tracciare il confine tra il Regno delle due Sicilie e lo Stato Pontificio, hanno diviso a metà l’area, in modo che il pozzo potesse essere usato dai pastori di entrambi gli stati. A testimonianza di questa divisione vi sono due cippi di confine, uno sul lato sud-ovest l’altro sul lato nord-est. Un cippo sta pure qua dietro. Mi conduce al cippo, che risulta essere il 177. Si trova in linea d’aria a un centinaio di metri dalla Fontana Fusa, per arrivarci è più complicato, bisogna attraversare due sbarramenti di filo spinato di campi privati, campi terrazzati, abbandonati ma ancora ben definiti. Qui una volta si coltivano cereali, ora ci crescono rovi e pascolo. Lungo le macere i rovi crescono abbondanti, due uomini con cesti stanno raccogliendo more. Scambiano qualche battuta col mio accompagnatore, poi noi tiriamo su per una mulattiera, alla fine dei terrazzamenti, dietro una macchia, il cippo 177. Tiro fuori la camera e fotografo, stia attento ai fili, c’è corrente, mi fa il pastore. Effettivamente su due lati sono stesi dei fili di colore arancio. Corrente? Si è per impedire alle bestie di passare di qui, se passano si mangiano le piantine che ho messo a dimora. Uno dei mestieri più antichi del mondo e la corrente elettrica per proibire spazi agli erbivori?
Gli chiedo una foto vicino al cippo, me la concede.
Inizio la salita, che secondo l’allevatore, di buon passo, dovrebbe durate un’ora e mezza. Lo sterrato è fastidioso, il fondo è di pietre irregolari che sfuggono sotto gli scarponi. Dietro di me un trattore si avvicina, procedo per una ventina di minuti tenendolo dietro, poi devo prender fiato, mi fermo a lato e lascio passare. Il trattore è preceduto da due cani di medio taglio, mi affiancano, mi avanzano, arretrano, annusano, marcano il territorio, espletano il loro lavoro di bestie. L’uomo alla guida mi saluta, poi si volta ancora e mi fa: vuol salire? Mi accomodo all’attacco del rimorchio, una piattaforma metallica che trasposta un serbatoio cilindrico zincato. Metto i piedi sul poco spazio che c’è tra il serbatoio e il gancio che tiene il rimorchio al trattore, poggio la schiena al serbatoio per darmi un po’ di stabilità, con una mano mi reggo a un bastone infilato in un manicotto laterale, è il bastone utilizzato per gestire le bestie. Nei sobbalzi dalle bocche del serbatoio fuoriesce acqua che mi bagna la schiena, davanti alla fatica della salita posso sopportare ben altro. A un tornante il pastore si accosta, spegne il trattore e scende. Vedo se le mie stanno qui. Si mette all’ascolto, anch’io. Suoni di campanacci provengono dal bosco sotto di noi. Non sono le mie. Sale su, rimette in moto e procede. Mi scusi, ma come ha fatto a capire che le sue bestie non erano qui? Dal suono dei campanacci, non erano i miei. Ma non tutte le bestie portano i campanacci, qualcuna delle sue, senza campanaccio, potrebbe essere lì in mezzo. Le bestie non si mischiano, ogni gruppo sta per conto suo. Si riconoscono tra di loro? Non so come fanno, ma loro lo sanno, non si mischiano, le mie stanno tutte assieme, così le altre.
Le bestie non si mischiano, la differenza tra l’animale e l’uomo? L’animale animale non si mischia, l’animale uomo si mischia. Non male.
Sul cruscotto del trattore, a destra, c’è la foto di un giovane, chiedo. E’ mio figlio, me l’hanno ucciso, cinque anni fa me l’hanno ucciso. Come ucciso? A Velletri, lui era alla guida di un pulmino, trasportava edili che tornavano dal lavoro. Un camion perde un telo dal rimorchio, cade per strada, mio figlio frena per evitarlo, la Wolkswagen che lo seguiva lo tampona e lui sbatte con la testa contro il taglio del finestrino. Morto. Moglie e due figli in mezzo a una strada.
Ha le lacrime agli occhi, occhi azzurri, pelle rossa dei biondi, potrebbe essere un bavarese, o un provenzale arrivato secoli fa a difendere il papa. Le disgrazie non vengono mai da sole, due mesi dopo un altro incidente, toccò a mia figlia, stava andando con la madre al cimitero, una moto, guidata poi da un mio figlioccio, si è infilata a 240 all’ora nella macchina, l’ha divisa a metà, lui è morto, mia figlia si è fatta un anno di ospedale, mia moglie si salvò perché si era voltata a sistemare una rosa caduta. Mia figlia da allora non si è più ripresa. E neanche mia moglie. Procediamo in silenzio, lui assorto, io annichilito dalle conseguenze di una domanda posta con troppo leggerezza. Lungo la montanara incontriamo diverse stazioni di abbeveramento, sono serbatoi cilindrici di metallo, o cubici di plastica, e poi vasche da bagno, bidoni tagliati a metà, un susseguirsi di contenitori improbabili. L’impianto è ingegnoso, sul recipiente di abbeveraggio è posto un sistema a galleggiante, lo stesso che si trova negli sciacquoni; quando il livello dell’acqua nella vasca si abbassa il galleggiante si abbassa, così apre la chiusura del serbatoio posto più in alto, l’acqua scende e colma il dislivello . Tutto l’allevamento da queste parti si regge sull’abbeveramento sostenuto artificialmente. L’uomo ferma il trattore in uno spiazzo, il suo. Ci sono taniche, vasche da bagno, un altro serbatoio cilindrico, un carrello per trasportare bestie, una carcassa di congelatore, sotto i faggi un lungo tavolo e relative panche fissate al suolo. Che tavolo lungo! Sì, chiesi il permesso alla forestale, me lo fecero costruire, ci veniamo ogni tanto, tra amici, quelli del circondario, anche la forestale, ci facciamo una mangiata, una bevuta, qualche risata. Lo fotografo girato verso me, sullo sfondo il santino del figlio. Chiedo conferme per la mia meta, me le fornisce, una stretta di mano.
Un’ora dopo sono all’imbocco di Pozzo Faito. Per arrivarci si procede per canaloni tra rocce e faggi, ci sono le segnalazioni del CAI ma anche altre, in rosso, vari rossi sovrapposti, non bandierine ma frecce, sono quelle che tre anni fa mi portarono in un altro luogo strano e misterioso, un cammino segnato da facce beffarde di Satana.
Questa volta seguo le bandierine bianche e rosse del CAI, così mi ritrovo a un ingresso di un pianoro, sull’ingresso il cippo numero 179, il pianoro è più in basso rispetto alla soglia, dietro il cippo un pozzo circondato da pietre, rovi, pali e vari tipi di fili di protezione. Mi affaccio, nel fondo dieci-venti centimetri di acqua, sul bordo secchi con corde, ai lati del muretto di pietre a secco vasche da bagno e bidoni di plastica blu tagliati a metà: sono tutti secchi. Sul fondo del pianoro quattro mucche sdraiate ruminano. Quando mi avvicino al pozzo si alzano e mi raggiungono, mi circondano, si aspettano acqua, mi stringono intorno al recinto del pozzo, ognuna di loro cerca di guadagnare la prima fila, mi spavento, ho paura della loro sete, potrebbero, nello spingersi tra loro, farmi cadere giù, con un bastone di legno le minaccio, le faccio allontanare, abbandono l’area del pozzo e cerco il secondo cippo. Lo trovo al lato opposto, reca il numero 180, anche questo è posto all’arrivo di un canalone tra rocce. I due cippi dividono il pianoro a metà. Gli ingressi al pianoro sono quattro così da dividere il cerchio in quattro archi di 90°; dalle pendenze è evidente che quando piove l’acqua dai quattro canaloni scende al pianoro, che si allaga, che diventa un laghetto: il Pozzo Faito è dunque tutto il pianoro, il pianoro è il fondo di un laghetto che si forma dall’autunno alla primavera. Il laghetto è una dolina, l’acqua, goccia a goccia, filtra attraverso le rocce calcaree generando le sorgenti giù ai piedi del monte, Fontana Fratta, Fontana Grande, Fontana Fusa, Fontana Berardi, sono solo alcune delle sorgenti ai piedi della montagna su cui mi trovo. Il pozzo nel Pozzo Faito è stato realizzato per attingere l’acqua anche quando questa si trova sotto il livello del terreno.
Comincio la ricerca del trono, giro lungo la circonferenza, non lo trovo; mi è stato descritto scalpellato nella roccia ma non ne trovo traccia, forse sta fuori dalla circonferenza. No, non può essere, sia per la funzione religiosa che per quella di potere amministrativo, il trono deve trovarsi sulla circonferenza, al massimo nel cerchio. Nel cerchio sicuramente non c’è. Forse è in alto, salgo e scendo le rocce, finalmente, sul lato sinistro, se si giunge dal sentiero di Veroli, scopro il trono, è in cima a una roccia che si alza per tre metri sopra il pianoro. Mi arrampico, mi calo nello scavo e mi siedo. È largo circa un metro e altrettanto è la lunghezza, la profondità sarà una quarantina di centimetri. La versione che lo definisce “trono del re pastore” vuole che qui si sedesse il pastore eletto. Ho immaginato il re giudice sentenziare, ordinare, disciplinare gli afflussi, gli armenti ai quattro ingressi, gli uomini in attesa, le vesti di pelli, i bastoni nodosi, gli odori forti delle pecore e delle capre, quelli delle vacche e dei cavalli. Provo a dare ordini alle quattro mucche che intanto si sono affrettate a venire sotto al trono, non attratte certo da me ma perché i pastori di oggi hanno installato, proprio lì sotto, un paio di contenitori cubici che portano acqua a due vasche da bagno, tutto assolutamente asciutto; le mucche si aspettano che io versi acqua in quelle vasche, mi muggiscono una richiesta risoluta, non rabbiosa ma severa. Provo a farmi sentire ripetendo gli ordini che udivo dare da mio padre, poi quelli dei cowboy visti al cinema, niente, le mucche non ne vogliono sapere. Però posso attingere un po’ d’acqua da quel pozzo …. Scendo dal trono, vado al pozzo, prendo il secchio di latta con la fune e lo lancio giù, tiro su mezzo secchio di acqua melmosa, le mucche si avvicinano, lo verso in una vasca, una di loro, la capo mandria, allontana le altre tre e si abbevera, ributto giù il secchio, per una decina di volte tiro su l’acqua e la verso, poi sono preso dalla paura di fare loro del male: l’acqua fangosa potrebbe avere dei parassiti pericolosi, invece di salvarle potrei ucciderle! Mi fermo, mi pento.
Lascio le mucche a succhiare acqua dal fango e cerco i segni dell’area sacra romana. Sì perché quel trono ha una versione storica ufficiale: si tratta di uno scavo nella roccia praticato per ospitare una statua di una divinità locale, il genius loci. Su una parete dovrebbe esserci anche una scritta.
La scritta la trovo subito, è sulla parete sinistra, se si sta di fronte al trono. E’ in latino, una parte è chiaramente leggibile, un’altra non tanto. Sotto il nome Paulo. Dunque la scritta è cristiana? Il luogo di culto pagano lo è stato poi anche per i cristiani? E’ molto probabile, queste storie non sono in contraddizione ma in verosimile continuità.
Di ritorno a casa scopro che l’epigrafe, per la citazione dei consoli in carica quell’anno (magistrati eponimi: Caio Calvisio e Lucio Passieno), è databile al 4 a.C. e testimonia la costruzione, col denaro offerto da due sacerdoti, di un tempio dedicato a Giove e alle divinità locali. Più in basso due graffiti di epoca posteriore nominano Pietro e Paolo, dunque testimoniano un probabile riutilizzo cristiano. L’edicola citata dalla lapide è da intendersi quello scavo nella roccia che ospitava la statua della divinità e che oggi i pastori dicono trattasi del trono del papa. Purtroppo il luogo non è tutelato, la scritta si scioglie alle piogge acide, l’area sacra non è né recintata, né indicata.
Le mucche sono lì, sono vive e hanno sete, ma non esistono più nell’immaginario collettivo, esse appartengono a un mondo morto, per lo meno un mondo ai margini. I pastori e gli allevatori che ho incontrato, di cui non conosco nome, sono margini lontani pur se vicini, il loro salire quotidiano con trattori che portano acqua, la loro lotta per abbeverare gli armenti, è una lotta dei margini; le taniche di plastica, i cilindri zincati, le vasche da bagno riciclate, i bidoni sezionati, le opere idrauliche come sifoni e rubinetti a galleggiante, portano in se il gesto creativo ma non diventano arte, almeno fino a quando non vengono griffate da un operatore del sistema, in tal caso assurgono a arte ufficiale che trova posto nei salotti e nei musei, che riempie le tasche dell’artista e degli altri operatori. La loro quotidianità consumata sulle strade o ai tavoli sotto i faggi resterà rumore di fondo della storia, una storia che Michel Focault ci proponeva di portare alla luce, per ricostruire le verità profonde, per restituire la dignità che spetta a quel tappeto su cui cammina la storia ufficiale dei potenti.
Indagare i margini, vivere lungo i margini, sapersi portare ai margini delle cose e della propria esistenza, scrutare il territorio dai margini, anziché dal centro delle certezze, vuol dire incontrare l’altro, permettersi di conoscere l’altro dal di dentro dell’altro.
Camminare lungo i margini, sperimentarsi in questo viaggio vuol dire prendere contatto con il graduale impercettibile passaggio dell’uno nell’altro. E’ vero ci sono confini netti nella natura fisica, esiste sempre un punto prima del quale uno stato esiste e oltre il quale ne esiste un altro, ma trovare nella scienza una risposta di natura fisica, chimica o biologica, e pensare di farla diventare una legge universale rappresenta un uso religioso della scienza, un qualcosa di aberrante, seppure molto diffuso, che evidenzia non la scomparsa del bisogno di dio ma solo la sua migrazione verso altri lidi e altri linguaggi. Il dio scienza è il dio dell’oggi, ai suoi margini altri dei, ormai secondari, balbettano, magari diventano pure simpatici.
Durante la discesa vedo i canadair all’opera su un incendio, è da tre giorni che cercano di spegnerlo, mi aveva detto l’allevatore indicandomi un punto delle colline sottostanti. Non ero riuscito a individuare l’incendio, avevo però percepito la preoccupazione di chi rischia di perdere casa, campi e bestiame. Ora dall’alto vedo il canadair scaricare l’acqua su un’area coperta di fumo non molto distante da dove sono io. Se l’incendio scavalca la cima di quella collina, poi attacca il bosco in cui mi trovo. E deve già essere successo qualche anno fa, posso vedere la valle proprio perché la faggeta davanti a me è solo qualche tronco arso tra macchie di rovi e altri arbusti. Si tratta della macchia bianca che mi indicava l’allevatore che davanti casa sua mi dava indicazioni sui sentieri delle vacche.
Mangio il panino seguendo le evoluzioni dell’aereo anti incendio. Solo standoci dentro si può vivere la forza drammatica del problema acqua, a casa, nonostante tutto, apriamo il rubinetto e l’acqua esce; siamo distanti, troppo distanti dai luoghi di senso delle affermazioni che pure pronunciamo, per le quali magari combattiamo battaglie di principio; qui a solo venti miglia in linea d’aria dai rubinetti di casa mia le sorgenti seccano, i boschi bruciano, le aree sacre sono polvere, il genius loci nulla può se gli uomini si perdono in territori lontani dalla propria esistenza.
I canadair sono i numi tecnologici che ci salvano, come tali li rappresentano in televisione ad ogni incendio, essi sono rassicuranti, non sono tali i pastori e gli allevatori che quotidianamente salgono le montagne per abbeverare gli armenti, per ciò essi non appaiono.
_quarto giorno
Dal nord est del confine dentro la provincia di Frosinone mi spingo a sud ovest, verso il mar Tirreno, al confine con la provincia di Latina. Lascio la SR 637, Frosinone – Gaeta, all’uscita da Vallecorsa per scendere nella valle sottostante, da lì per strade bianche mi avvicino alle colline che separano Vallecorsa da Fondi, non ci sono indicazioni per “Vallecorsa Vecchia” o “ Acquaviva” come preferiscono chiamarla a Lenola. Mi fermo a una casa in mezzo alla macchia, pietre e mattoni a vista, getti di cemento lasciati a metà, mozziconi di pilastri con il ferro arrugginito che si alzano dal tetto. E’ un luogo in apparenza senza senso, non è bello, non è fertile, non è fresco, non c’è una natura rigogliosa, che ci fa un’abitazione qui in mezzo? C’è un vecchio seduto sotto una tettoria di lamiere. Chiedo per Vallecorsa Vecchia, mi dice di proseguire per la strada ancora per un chilometro, poi inizia un sentiero pedonale, oppure posso proseguire verso Fondi, arrivato al passo, dove si vede il mare, lasciare l’auto e prendere il sentiero che torna indietro lungo il crinale del monte.
Seguo quest’ultimo itinerario, mi fermo a un recinto di bufali. Le bestie nere di pelo sono giovani e portano la scheda punzonata nell’orecchio. Nessuna mi sembra da latte, è un allevamento per carni, niente mozzarella di bufala. Di sentieri ce ne sono due, uno a mezza costa e un altro sul crinale, prendo quello a mezza costa, tornerò poi percorrendo l’altro. Il sentiero si infila in una macchia di carpinella dalle foglie piccole e fitte, non proprio alberi ma arbusti alti quattro cinque metri, ogni tanto qualche leccio, anch’esso ridotto ad arbusto, negli spazi vuoti la stramma, erba tagliente usata per funi, recipienti, sacche per contenere la terra e creare terrazzamenti semicircolari intorno alle piante di ulivo. Lungo il sentiero mi vengono incontro tre bufale, me le trovo davanti all’improvviso, la loro massa nera avanzante mi spaventa, anche io devo aver spaventato loro, ci guardiamo un po’, poi la prima della fila esce fuori dal sentiero e si mette a brucare le foglie degli arbusti, le altre seguono.
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Dieci minuti dopo mi trovo nel vallo tra due colline, davanti a me i ruderi di un manufatto umano, sulla destra panche e tavoli da picnic, sullo sfondo il mare: a sinistra le isole flegree, a destra Ponza e le altre isole dell’arcipelago. Nuvole basse concludono il passaggio della prima perturbazione autunnale (è proprio il 21 settembre), la piana di Fondi, col suo lago a nord della città, è un susseguirsi di tetti di plastica, sono serre, lembi di terre industriali separati fisicamente dalla natura circostante. Uno sfavillio di luce bianca, perfino i riflessi del mare e del lago sembrano bui.
Tra i tavoli da picnic il cippo n.49, data 1847, indica che siamo sul confine tra i due antichi stati, un confine che fu a lungo terra di briganti. E fu proprio il brigante abruzzese Marco Sciarra, alla fine del secolo sedicesimo, a conquistare Acquaviva e a decretarne il totale abbandono. Gran parte dei resti sono sparsi sulla collina, in piedi restano solo parti delle mura, qualcuna è stata consolidata di recente, come pure il cammino della guardia, un sentiero che circonda la collina. Si dice che gli abitanti di Acquaviva si rifugiassero a Vallecorsa, per questo oggi essi la chiamano Vallecorsa Vecchia. Non lontano dovrebbe trovarsi il cippo n.48, mi metto alla sua ricerca procedendo verso Fondi. Lo trovo all’altro lato della collina, anche qui area picnic, a sud ovest il mare, a nord si intravede il paese di Vallecorsa, in fondo, a chiudere l’orizzonte, la Monna, picco degli Ernici. Il cippo n.48 è datato 1846, dunque l’ultimo messo in posa nel 1846, che tutti gli altri sono datati 1847. L’accordo tra i due stati, firmato da papa Gregorio XVI e re Ferdinando II nel 1840, si rese necessario per sanare diverse controversie; nelle zone di queste controversie i cippi sono più frequenti, nelle aree dove i confini erano pacificamente consolidati i cippi sono più rari. Inizialmente furono posti dei pali di legno, poi dal 1846 questi furono sostituiti da cippi di pietra locale. Complessivamente ne posero 686 a partire dal fosso Canneto a Fondi per finire alla foce del fiume Tronto in Abruzzo. La numerazione si ferma a 649 in quanto alcuni di essi sono ripetuti con l’aggiunta di una lettera.
Mi siedo a consumare la colazione, preferisco il lato mare. C’è vento e ronzio di mosche.
Due stati potenti, uno, il Regno delle due Sicilie, era il più grande stato italiano, eppure i senza legge la facevano da padrone. Terra dei margini terra di briganti, anche il castello di Ambrifi fu conquistato da loro, avvenne una decina di anni prima della caduta d’Acquaviva.
Mi ricordo solo ora di aver già incontrato un luogo di briganti sopra Prato dei Campoli, un sentiero parte dal prato e conduce alla Grotta dei Briganti, che poi non è una grotta ma una roccia alta una decina di metri con davanti una radura, sotto la roccia e in quella radura bivaccavano i briganti, lì si preparavano ad attraversare il confine per “infastidire” i sabaudi divenuti italiani.
Tra i margini una terra insicura, una terra dove è più facile tirar fuori il fuorilegge che è in noi, tra i margini forze centrifughe, perché son deboli le forze che arrivano dal centro. Tra i margini una terra senza legge, senza nome, terra del caos primordiale, terra dove tutto diventa possibile, una terra tanto più ampia quanto più è difficile tenere una separazione e tanto più proibita quanto più si teme il contagio.
Cambia il mio sentire, le nuvole basse che vengono dal mare, il vento che fa freddo, le bufale nere che hanno sostituito le docili mucche, l’arido di queste terre percorse dagli incendi, le fredde dominanti grigie e blu, ancora una volta scompare il piacere della ricerca.
Di ritorno mi viene di tagliare la provincia da ovest a est, perciò scendo per Castro dei Volsci, da qui risalgo a Pastena, lungo la strada e poco prima del paese, sulla destra uno striscione: LA FRONTIERA 2011- Festa dei briganti. L’immagine riproduce un brigante con lo schioppo appoggiato a un fontanile, a lato un cippo di confine. Entro in via Cavatelle, la percorro, finisce in uno spiazzo, a sinistra un ruscello, un fontanile, dei lavatoi, davanti un cippo di confine, dietro al cippo un pagliaio con tetto di stramma, a destra un bivacco, una tettoia di stramma, degli steccati. C’è un auto ferma a sinistra, ha il portellone aperto, dentro decine di bottiglie di plastica, qualcuno sta rifornendosi di acqua al fontanile. Scendo e mi avvicino, una giovane donna sta riempiendo le bottiglie. Quest’acqua abbassa la pressione, mi dirà più tardi. Ho chiesto prima della festa dei briganti. Mi fa vedere un manifesto strappato, un lembo è rivolto all’ingiù, lo alzo, chiedo alla signora di reggerlo e lo fotografo.
La festa si è tenuta venerdì 19 e sabato 20 agosto, c’erano persone vestite da briganti, chi a piedi chi a cavallo, qualche schioppo antico, asini, pecore, mucche, hanno cagliato, fatto le marzoline, dal siero hanno ricavato la ricotta, proprio a quel bivacco lì di fronte, donne filavano la lana con arcolai d’epoca, altre ne facevano maglie e tessuti, uomini modellavano le cioce, altri piegavano il cuoio, altri ancora hanno costruito i pagliai, che erano due, ora è rimasto solo il più grande. C’è un’associazione che si chiama La Frontiera, gli associati studiano avvenimenti ai confini, cercano documenti d’epoca, mettono su mostre e pubblicazioni, riproducono utensili, manufatti, trovano i cippi di confine abbattuti e li rimettono dove a suo tempo li avevano posti i borbonici e i papalini. Sono loro che organizzano da sette anni questa festa. Poi arrivano gli organetti, suonano musiche d’epoca, il saltarello, e tutti quelli che vogliono ballano. Si mangia formaggio di pecora, sagne e fagioli, cotte in loco secondo ricette antiche, e tanta carne alla brace.
Il cippo è il numero 95, è di quelli grandi che definisce, oltre il confine tra i due stati, anche il confine tra due o più comuni, in questo caso si tratta del confine tra il comune di Castro e quello di Pastena.
Riempio la mia bottiglia di acqua diuretica, saluto la gentile signora e procedo per Pastena, l’attraverso e prendo la strada per Falvaterra, passo per San Giovanni Incarico, procedo per la SS n.6, la consolare Casilina, e dopo Arce risalgo la SS. 82 della Valle del Liri. Da Isola prendo per Castelliri alla ricerca dei cippi 166 e 167, li trovo lungo la SS 214, conosciuta come via Mària, uno a sinistra e l’altro a destra di un ponticello su un fosso in zona Porrino. La loro presenza è ben segnalata da cartelli posti nelle due direzioni di marcia, uno è stato posto dal Comune di Castelliri, borbonico, l’altro da quello di Monte San Giovanni Campano, papalino. Entrambi i cartelli recitano: Linea di confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle due Sicilie, trattato del 26 settembre 1840. E’ tramonto.
_quinto giorno
Vado alla ricerca del cippo numero 176, un cippo che segnava il confine tra Monte San Giovanni Campano e Sora. Salgo da Scifelli, contrada nel comune di Veroli, e qui impatto il ristorante “La locanda dei Briganti”, mi fermo a leggere un vecchio manifesto:
domenica 2 luglio 2011
Rievocazione storica dell’Unità d’Italia sui monti della Ciociaria nel 1860 – 1862 …..
.. e del brigante “che muore … e … alza al ciel la mano insanguinata”.
Concerto con il coro Novicantori
Menù del brigante. …
Incrocio la provinciale Incoronata all’altezza dei Cocchi, prendo a destra per la Contrada Fontana Fratte e procedo per Fontana Grande, arrivo fino al cartello di inizio del comune di Sora, fermo l’auto, nella piccola valle a destra c’è l’ex discarica di Monte San Giovanni Campano, è qui, non lontano dalla discarica, che dovrei trovare il cippo. Non posso non soffermarmi sul fatto che il comune di Monte San Giovanni Campano colloca la sua discarica ai margini del suo territorio, al confine col comune di Sora: il più lontano possibile, nascosta tra le querce, non vedere, non sentire, dimenticare? La discarica da qualche anno è chiusa, come del resto quasi tutte quelle comunali, oggi i rifiuti della provincia di Frosinone vanno agli impianti di Colfelice. Il posto è bello, macchie boschive, molto ampie, intervallate da pascoli divisi da filo spinato che delimita le proprietà e gli allevamenti di mucche. Cerco un tratturo che scende verso la valle, non lo individuo subito perché è occultato dai rifiuti di una piccola discarica abusiva: copertoni, sanitari, tubi di eternit, plastiche varie, materassi, …… Scendo verso la valle cercando a vista, mi oriento verso un fosso, ne percorro un chilometro e torno indietro. Avevo letto da qualche parte che il cippo si trova in prossimità della provinciale; cerco altri tratturi da percorrere, ne trovo uno che cammina parallelo alla strada, lo risalgo, attraverso macchie di querce, e come altre volte all’improvviso me lo trovo davanti. E’ ben conservato, qualcuno si è preoccupato di ripassare gli stemmi e i numeri con tintura nera e rossa, l’intervento di manutenzione è recente, forse proprio per la festa del 2 luglio.
Non è l’unico con interventi di restauro, è evidente che un po’ ovunque c’è attenzione per questi cippi. Ci sono diverse iniziative di ricollocazione delle colonnine, in alcuni casi, in assenza degli originali, le hanno ricostruite e installate ex novo, proprio com’è accaduto al cippo numero uno sul fosso Canneto a Terracina. Su internet si possono trovare decine di siti di signori che pubblicano foto di ritrovamenti, ricollocazioni, iniziative in costume d’epoca che rievocano gesta, battaglie, incontri storici.
I briganti, oltre a fornire pretesti per feste in costume, danno il nome a trattorie e ristoranti in quasi tutti i paesi segnati da questo confine.
Come leggere questa effervescenza? I 150 dell’unità d’Italia, voglia di disgregare questa unità, voglia di vecchi nuovi confini, mancanza di temi più coinvolgenti?
Si potrebbero aggiungere altre ipotesi, ma giacché sono io a tracciare questa mappa mi piace pensare che stiamo creando confini finalmente valicabili, per viverne il fascino, per esercitarci, senza gravi conseguenze, a oltrepassarli come e quando ci piace. E’ un gioco pericoloso? Può darsi, il tempo ci dirà.
_sesto giorno
Ritorno verso ovest alla ricerca della Terra di Nessuno, ci vado con due amici, Pina e Luigi. Riprendiamo il percorso dai cippi 49 e 48, Vallecorsa Vecchia, al valico, dal lato del recinto delle bufale, troviamo i resti di un altro cippo non identificabile, forse il 47. Da lì scendiamo la carreggiabile per Fondi; la strada, sterrata, è in pessime condizioni; si passa per Sant’Agata, agglomerato di case di pastori, oggi quasi del tutto abbandonato, Moravia e la Morante vi si rifugiarono dopo l’8 settembre 1943 e vi rimasero fino al 1944. E’ il soggiorno in questo luogo che porterà a “La Ciociara”. Scesi a valle si incontra la SS7, l’Appia, prendendo la direzione per Terracina si giunge alla Dogana Portella, dogana di prima classe, recita la targa sulla porta, una porta difesa per la quale si entrava nel Regno delle due Sicilie. Davanti, sul lato Napoli, tre targhe, una ricorda il passaggio di Mozart nel 1770, la seconda menziona altri personaggi storici che vi transitarono, la terza avverte che lì comincia la Terra di Nessuno.
Procedendo per l’Appia misuriamo la Terra di Nessuno, tre chilometri, due miglia, fino alla Torre dell’Epitaffio, inizio dello Stato Pontificio. Una targa ricorda che fu costruita dal duca D’Alcalà nel 1568. Oggi la torre e gli edifici, una volta utilizzati dai servizi doganali, sono abitati da privati.
Passando sull’altro lato della statale si trova il Cippo numero 4, è uno dei grandi, segnava il confine tra Terracina e Fondi, o forse San Biagio, oggi la Portella si trova nel suo territorio.
Lungo il lago e la piana i cippi sono tanti, segno evidente di forte contenzioso; sul Fosso Canneto, in prossimità del mare, il cippo numero uno: il suo ritrovamento non suscita particolari emozioni.
Mi prende invece molto di più quella fascia di tre chilometri della Terra di Nessuno, terra che oggi ospita costruzioni civili, attività agricole, commerciali e di trasformazioni di prodotti. Com’era 150 anni fa questa Terra Nullius, No Man’s land? Non la riesco che a immaginare vuota, Terra di Nessuno come area del vuoto, vuoto di potere, vuoto di stratificazioni, terra in bilico.
Il margine è definibile come un limite che appartiene a un soggetto, il confine è invece un limite in comune tra due soggetti, margine e confine sono una linea, o anche solo un punto (per esempio per una semiretta). La Terra di Nessuno è lo spazio tra due margini, per esempio tra i margini di due stati, la fascia che costituisce la frontiera. La frontiera è il limite oltre il quale c’è l’altro, o il non conoscibile, il proibito, il fuori legge, … la Terra di Nessuno è uno spazio dove non è possibile distinguere ciò che è interno e ciò che è esterno.
Mi sono reso conto alla fine che da tempo sperimento Terre di Nessuno, ne ho sentito la consistenza come prodotto della tensione dei due “altri” al suo limite, nel caso fossi io terza parte, o la tensione dell’altro nel caso dei rapporti personali, la tensione del limite dell’altro.
Ho un ricordo vivido della Terra di Nessuno tra me e l’altro nel desiderio di incontrare l’altro: uno spazio sospeso, occupato da una sorte di avatar che rappresentava me e l’altro fusi. Uno spazio oltre me e prima dell’altro, che rimaneva invalicabile giacché se mi spingevo oltre, nell’invasione dell’altra persona, incontravo il nulla. Portarmi nel campo di tensioni tra me e l’altro è stato soprattutto esperienza d’amore, ma mi rendo conto che può accadere anche fuori dal contesto amoroso. Diverso è mettersi nei panni di un altro, questa esperienza non ha Terra di Nessuno, in quanto essa è esercizio individuale che non implica la presenza attiva dell’altro.
Come terza parte sperimento Terre di Nessuno al venire della sera, mi siedo davanti al tramonto, il sole scende, scompare, io sono in ascolto, lo spazio si ispessisce, i suoni ovattati, il mondo si ritira nell’intimo, lascia uno spazio tempo vuoto, Tempo di Nessuno, i diurni si sono ritirati e i notturni non sono ancora usciti, la natura si ferma e io sento un bene ricongiungermi ad essa in questa sospensione del tempo. Poi viene la notte e sprofonda in me col buio che viene come una dilazione degli spazi molecolari, e sono me e la notte universo. Non posso fermare il tempo, neanche quello di nessuno, perciò ogni volta che posso mi siedo davanti a un tramonto.
Lo sperimento anche nei sogni quelli da sveglio e quelli che arrivano nel sonno.
Nel primo caso l’esperienza si manifesta come Io, Terra di Nessuno, tra creazioni positive e creazioni negative, in poche parole ad ogni creazione positiva si contrappone, quasi come un automatismo, un’altra creazione, definita per comodità negativa, che la vanifica. Posso stare delle ore lì in mezzo, io, sospeso in un insolubile che tende all’infinito.
Nel secondo caso, nei sogni da dormiente, io cammino tra l’ignoto e il conosciuto, elementi riconoscibili che si contestualizzano in un insieme ignoto, io procedo perso, alla ricerca di senso ma questo si scioglie in rivoli per le strade di metropoli improbabili.
Questi sogni hanno certamente a che fare con le esperienze delle derive: in ogni posto che visito, conosciuto o sconosciuto, mi concedo, almeno una volta un cammino senza meta e senza criteri di scelta; anche questo racconto di esplorazioni concede molto al metodo delle derive, è solo così che ho potuto incontrare tante marginalità assolutamente sconosciute e imprevedibili, ho potuto sentire per esempio la distanza tra le parole sull’acqua e il vivere il problema acqua; con le derive vado incontro, e così incontro spazi sempre nuovi, perché rinnovati dai contesti, dai modi come essi mi giungono, siano essi luoghi fisici che persone.
Cosicché può capitare anche il fantastico vissuto nel concreto, il sogno vissuto da sveglio; il fare a meno di tutte le coordinate è Terra Nullius, è uno stato procurabile in qualsiasi contesto e momento della vita, è una scoperta di se, unicum, eppure diffuso come molecole allo stato gassoso relazionanti con tutti gli elementi dello spazio coinvolto.
Terra Nullius è il Nirvana, uno stato di beatitudine, un essere presente come sé e come tutto l’universo, è lo spazio dove si può essere nelle origini, prima della divisione della terra in nomi, in proprietà “private agli altri”. La Terra di Nessuno è anche una Terra Promessa, il luogo dove si può sperimentare ciò che non è, il luogo rifugio quando l’esistente ci esclude, il luogo della pazzia che ci salva dall’annullamento, il luogo delle epifanie.
Abbiamo bisogno di Terre di Nessuno. Costruiamo territori, cioè ambienti identitari, ma rendiamoli permeabili, attraversabili, destrutturabili, facciamolo per gli spazi fisici e quelli psichici, e facciamolo perfino con le modalità di costruzione del pensiero, nella creazione di concetti, non più verificandoli attraverso contrapposizioni duali, non fortificandoli con alte mura o difendendoli con tempeste intellettuali, ma rendendoli forti perché lasciati agli attraversamenti altrui; le incursioni dell’altro ne saggeranno la forza, ne plasmeranno nuove forme, creeranno altro pensiero.
_settimo giorno
Il settimo giorno, pacificato dalla conoscenza della Terra di Nessuno, andai al mare, a Sabaudia.