La barberia era al centro di un grande cortile, un cubo di cinque metri per lato, lungo il perimetro un muretto sedile per decine di persone.
Aveva una doppia entrata su due lati adiacenti, alle porte tende antimosche a strisce di plastica, pavimento di lapilli battuti. Non aveva insegne, non ce n’era bisogno perché tutti sapevano, e se arrivava un forestiero ci metteva poco a costruirsi la mappa produttiva e commerciale del paese:
quattro barberie, due mannesi, un bottaio, una “onoranze funebri”, quattro preti per tre chiese e due campanili, quattro sarti per uomini e sei sarte per donne, cinque negozi alimentari con annesso forno, un ferraiolo, uno stagnino, un fontaniere, quattro calzolai, uno di loro vendeva anche scarpe prodotte dalle industrie, quattro bar, un ferramenta, una rivendita di vernici, carte da parati e tinte murarie, tre beccherie, un circolo monarchico, un circolo socialista, bar camuffato, una sede democristiana e una comunista, un saponaro che vendeva anche varechina, soda caustica, acido muriatico e i primi detersivi, una cantina, due segherie, tre falegnami, un idraulico, un generi diversi, una drogheria, una farmacia.
Il resto, frutta, pesce, pentolame, posate, vestiario industriale, pelletteria, e tutto quanto altro potesse servire, era affidato alla distribuzione di ambulanti, oppure ai mercati settimanali che si tenevano in tutti i paesi.
Cinque pubblici esercizi però le insegne le avevano, in legno verniciato, opere di Santino ‘o pittore, tutte realizzate con l’ombra a destra, un “Coloniali”, cioè la drogheria, che vendeva spezie esotiche, the, caffè, cacao, confetti, essenze per liquori, alcol puro; un “Salone”, cioè una barberia, quello della piazza, elegante e frequentata dai signori, un “Bar Centrale”, un “Bar Sport” e una “Beccheria”.
Felice lavorava dentro, ma capitava anche di sbarbare e tagliare capelli fuori, poteva accadere nei tardo pomeriggi e nella prima sera dell’estate, quando le mura erano ancora infuocate e fuori la temperatura scendeva. Poteva capitare che il cliente volesse continuare a chiacchierare con quelli seduti sul muretto, ma anche ché fosse Felice a voler chiacchierare. All’adulto concedeva la scelta, per i bambini e i ragazzi sceglieva lui, e se fuori la compagnia era buona, la discussione accesa, certamente toccava stare fuori sulla poltroncina mobile. Dentro, una poltrona da barbiere fissa, due specchi di fronte, un banco da lavoro per sartoria, una macchina per cucire, una decina di sedie impagliate sparse, un calendario, decine di gabbie appese al soffitto o agganciate alle pareti. Nelle gabbie canarini, cardellini e canarini incardellati. Felice era allevatore e ne faceva commercio. Cinguettii, gorgheggi, melodie, frullate, tintinnii di ferri, frenetici stropicci di piedi, beccate, deglutizioni si aggiungevano alle conversazioni degli uomini, oppure riempivano il silenzio, o assorbivano il crepitio del rasoio sulla pelle, lo sforbicio di punta, il procedere meccanico della macchinetta per tosare. Ogni tanto si fermava con lo sguardo al cielo,” lo senti? lo senti stu scurnacchiato? nu’ n’galla e canta, non si guadagna la giornata, via dalle mie caiole! Lunedì al mercato lo vendo, mangiatore a tradimento!”
– Ma tene na voce flautata, è una bellezza sentirlo cantare.
– E per questo lo venderò bene Sastià! Chi ama il canto lo apprezza di sicuro! Ma qui lui non ci sta per cantare, lui addà n’galla ‘e canarie. E nunn’è buono Sastià, canta ma nu’n’galla!
– Ma forse non apprezza, cambia canaria, mettilo con altre, ci stanno le preferenze. Pure l’animali so’ comm’all’uommane.
– Sastià l’ho messo con tutt’e’canarie, niente! Mènnè fatto fesso, me lo hanno venduto per buono.
– Chillo è buono sule a cantà. Mo’ aggia vedè come venderlo bene.
– Ma quando vuoi per questo canario?
– 10.000. Sastià, meno di 10.000 non lo do.
– Ma tu si pazzo, 10.000 lire per un canario! Nu’ canario più di una Bianchi nuova, ci vuole un quarto di pensione pe’ stu frungillo!
– Ma quale frungillo, questo è un canario che gorgheggia meglio della Callas. e vuo’ mettere a’ Callàs cu’ Giuannina a’Sciantosa, che saccio, Beniamino Gigli cuù … , cuù… , cù te Sastià?
– Che c’entra! Io canto bene, certo non ho una voce da Mario del Monaco, neanche di un Sergio Bruni, ma il paragone nun’cia’zzecca. Nun’ciazzecca proprio, Stai sbaglianno Cicè!
– Guardate, uh guardate a chisto, s’è offeso.
– Ma che offeso, Cicé, ìi so’ interessato a chistu canario, ma tu e’ sparato nu’ prezzo esagerato.
– Sastià se e cose stanno accussì, se sei interessato, il prezzo cambia, nu’ me metto certo a prendere n‘gann a n’amico. Tu sai che chisto nun’è buono, e ti dico che l’ho pagato 10.000 lire. Male che mi va io al mercato le rifaccio tutte, a uocchie chiuse Sastià. Pe tè posso pure rimetterci 2.000 e dartelo a 8 carte, pecchè l’affaro nun’è andato bene, e pecchè si tu. A meno nu’pozzo.
– Ie nu’n’aggia fa commercio, nun avevo intenzione di pigliare nu canario, però mannarlo mmano a’nautro, nu’ sentire chiù sta voce, me dispiace assaie.
– E’ ò tuoie Sastià, quando vuoi portalo a casa. Pure stasera.
Fuori seguivano il passaggio di mano del canarino.
Eh, tra buzzi ci si intende! fu il commento sottolineato da molte teste scodinzolanti.
Nelle buone stagioni i sedili di pietra non erano mai vuoti, come pure le sedie di paglia d’inverno.
Il paese era setacciato, raccontato, trascinato davanti a un tribunale da lingue amare come il fiele.
Quello che non si fa non si sa.
Ma lì si sapeva anche quello che non era mai accaduto, cosicché accadimenti previsti, temuti o desiderati, diventavano realtà vista con i propri occhi. Supposizioni si trasformavano in certezze raccontate con dovizie di particolari verosimili. Non che non fossero capaci di fare appostamenti, di spiare persone, di domandare come poliziotti, loro andavano oltre, davano una mano ai fatti, perché questi scivolassero in un certo verso, e se poi si ostinavano ad andare in altre direzioni allora nei racconti venivano aggiustati, rediretti. Naturalmente Felice era il terminale di tutti i mondi, reali e inventati. Chi si perdeva una puntata chiedeva a lui il riassunto.
Per esempio erano convinti che era Sebastiano a non poter avere figli. Ferdinando riferiva che ogni tanto l’aveva incontrato nelle case di appuntamento, e si ricordava benissimo quando prese lo scolo la prima volta, ma poi lo riprese e lo riprese ancora, e là dentro non ce lo facevano più entrare, me lo disse proprio la madama. Altro che la moglie, quello lì si è giocate le palle, ve lo dico io.
Felice ascoltava e non si pronunciava, faceva parte del lavoro, intrattenere le persone, non porre mai domande inopportune ma solo quelle che si aspetta il cliente, ricordare gli interessi, l’ultima conversazione, esprimere un’opinione politica prossima. Se il cliente era pro sindaco la domanda maliziosa era sull’opposizione e quella sulla maggioranza era puramente informativa, accadeva l’opposto se il cliente preferiva l’opposizione.
E poi, poteva perdere clienti perché aveva lavorato male, perché il locale non era il massimo della pulizia e delle attrezzature moderne, ma per un’opinione politica proprio no.
C’erano quelli che tutti i giorni passavano, Giosuele e Pascale e funari, Giuvann o n’grillo, o Tenente, Pierino ‘o capotreno, Vitagliano o muto, Rinaldo o venezuelano, quelli che rimanevano qualche pomeriggio, Peppe ‘o stagnaro, Sastiano o carruzziere, Paoulino a legge, mast’è Dumminico ‘o faligname, poi venivano gli altri che stavano lì solo il tempo necessario.
Le carte napoletane non mancavano, si giocavano il caffè o il Peroncino (birra da 200 cc) che arrivavano dal poco lontano Bar Sport, oppure giocavano a soldi, 50 lire per un tressette a 21 o una briscola a 120, oppure 20 lire a tressette a chiamare.
Felice era anche sarto per uomini, maestro di taglio e cucito, un vestito a settimana, sotto le feste di natale e nel periodo dei matrimoni anche due o tre. D’inverno sposavano solo quelli che avevano fatto “’o ‘nguacchio”, niente matrimoni dalle Ceneri fino a Pasqua, a maggio non si sposava perché era mese di spine, a giugno si ma non tanto i cafoni, a luglio e agosto troppo caldo e troppo lavoro nei campi, a ottobre il tempo migliore per il matrimonio dei cafoni. C’erano i ricavati dei raccolti, il lavoro era poco e il tempo ancora buono.
Eseguiva i lavori di sartoria la mattina e nel primo pomeriggio, quando i clienti erano rari, per lo più bambini e qualche caso urgente.
Felice prendeva le misure, disegnava, tagliava, imbastiva e provava il vestito prima della cucitura, la moglie provvedeva a foderare e cucire, approntare le asole, attaccare i bottoni. Era aggraziata nei modi, meticolosa e precisa nel lavoro. Lui non aveva mai aggiornato i suoi tagli di capelli, all’indietro più o meno corti o all’Umberto, cioè a spazzola, infine il caruso con la macchinetta per i bambini che avevano sfoghi e pidocchi. Le basette un po’ prima del termine dell’orecchio, i baffi come voleva il cliente. Così per i vestiti, a due bottoni o a doppio petto e cavallo lungo per tutti i pantaloni. Roba che aveva funzionato dalla guerra all’inizio degli anni 60, dopo la moda prese a cambiare rapidamente, lui rimase fermo, divenne il barbiere e il sarto dei vecchi.
Aveva appreso i due mestieri dal nonno. Ci andò dopo la seconda elementare, prima a ramazzare capelli, infilare aghi, e dare il filo ai rasoi sulla cinghia di cuoio, poi apprese a insaponare barbe e imbastire lungo le linee di gesso. Quando a lui spuntò la barba era già un barbiere completo, e come sarto doveva solo apprende di taglio. A ventidue anni, di ritorno dal militare, il nonno passò a lui la mano, a ventiquattro sposò Fortunata che gli diede un maschio e una femmina.
L’aveva conosciuta alla pasquetta sui Lagni. Lei c’era andata con due sorelle e sei cugine, stavano in cerchio in mezzo ai larghi filari di pioppi. C’erano due fisarmoniche che suonavano e al centro le coppie che ballavano sul prato. Foxtrot, tanghi, valzer, quadriglie comandate, Felice li ballava tutti, conduceva con ferma eleganza e tempi precisi. Stava proprio girando un valzer quando incrociò lo sguardo di lei. La invitò a ballare.
Sono lusingata ma non posso, non ho il permesso dei miei genitori.
Ed io vi rispetto. Posso almeno sapere come vi chiamate?
Fortuna, della famiglia Palma di Faibano.
Il falegname? Quello che tiene la segheria dove fanno le cassette per i pomodori.
Si, avete capito bene.
Scusate se sono sfacciato, ma voi pensate che io posso venire a casa vostra a chiedere il permesso di ballare con voi?
La mia famiglia è cortese con tutti, perché dovrebbe fare uno sgarbo a un giovane come voi?
Permettetemi di dirvi che parlate in modo squisito.
Me lo insegnano le suore dove ogni mattina vado ad apprendere di ricamo e buone maniere. Voi pure parlate bene.
Ma non sono state le suore, sono stati i due anni di militare, l’ho fatto nelle caserme del Friuli.
Si congedò tra inchini e promesse.
A casa ci andò, la famiglia prese informazioni e giudicò Felice non all’altezza: proprietario di un salone ma non di una casa e neanche di un pezzo di terra, neanche la licenza elementare, a mala pena sa firmare, un uomo meno istruito di una donna, non si era mai visto. Fortunata merita molto di più di quanto questo giovane può. No, non poteva ballare con lei le prossime feste di Natale, e neanche la doveva avvicinare. Se la doveva scordare.
Felice mise di mezzo tutti quelli che poteva, più volte si recò in quella casa, ma il padre si faceva negare.
A Fortuna quel giovane ballerino piaceva assai, accettò le ambasciate che la cugina le passava, quando il padre ne venne a conoscenza la richiuse in convento. Non si era mostrata meritevole di fiducia, sarebbe uscita quando trovano un fidanzato all’altezza.
E invece Fortuna uscì, uscì una notte scavalcando il muro di cinta dell’aranceto, sotto l’aspettava Felice con la bicicletta, la mise in canna e partirono per Casoria, si nascosero a casa di un cugino, intanto che la famiglia di Felice trattava.
Quella figlia se la potevano pure tenere, per lui non esisteva più. Non avrebbe avuto neanche uno spillo, neppure al matrimonio sarebbe andato, ne’ lui, ne’ gli altri della famiglia, fu la risposta del padre.
Il mese dopo Felice e Fortuna sposarono, lei in abito bianco ché Felice nella scappata la rispettò, lui vestito di nero, regalo del nonno che per l’occasione riprese a cucire e ne confezionò tre, uno per il matrimonio, uno per il viaggio di nozze, a Napoli e Pompei, e un altro per l’inverno che stava arrivando.
Al matrimonio ballarono tutto il pomeriggio, e continuarono a farlo ad ogni festa che potevano. Partirono per Napoli col break di Sastiano.
I giovani presero ad abitare in una camera del cortile Impastato, la signora Fortuna passò dal ricamo al cucito, non perse mai il suo italiano con tutte le finali al posto giusto, i gesti misurati, e la passione per il marito. A settanta anni passati in un momento di confidenze diceva alle vicine, “da quando siamo sposati non è cambiato nulla, ogni sera Felice fa il suo dovere di marito”
Il padre si negò sempre, anche quando nacquero i figli, sette ne fece, solo due divennero adulti.
Il maschio carabiniere, la femmina impiegata comunale, la bottega rimase senza eredi ma quei posti erano fissi e il mensile assicurato. Essere artigiano in un paese di cafoni voleva dire dipendere dalla terra come non mai, se il raccolto era buono il cliente aveva come pagare il canone mensile, non solo, ma si concedeva un vestito in più per lui e per i figli maschi. Se l’annata andava male si sbarbava e tagliava capelli come prima, ma una parte dei clienti aspettava i nuovi raccolti per pagare, e di vestiti neanche a parlarne. Sotto le armi, piove o nevica, gela o secca, il 27 viene lo stesso.
“Voi giovani siete fortunati, la mangiatoia è bassa, la famiglia pensa a tutto e dove non arriva provvede lo Stato”.
Questo il cemento dell’aggregato sociale del salone di Felice.
Un aggregato che divenne penisola, poi quel cubo circondato dalle panche divenne un’isola che si allontanava nello spazio. Bisbigliavano sempre più debolmente, la loro voce divenne un brusio incomprensibile, i volti sbiadirono dietro le barbe bianche che aspettavano il sabato.
Per le nuove generazioni quelli del salone di Felice erano meno delle galline che razzolavano nel cortile, anzi erano già morti, dovevano solo seppellirli.